EP04 Dalle Macerie / Out of the ruins

Be An Ally

Ilaria Lupo, Martina Muzi, Ilenia Caleo

A cura di: Post Disaster

Assemblea, Performance,

23.04.2023

40.4764321, 17.2290816

“Be An Ally” (biːəˈnɑːleɪ) è un’unica azione collettiva divisa in fasi. Il nome sottintende l’intenzione di interpretare il post-disastro come una condizione di partenza per la formazione di futuri alternativi. Dalle rovine del presente emergono formazioni fragili, necessariamente interconnesse e solidali, che sviluppano nuove relazioni spaziali e sociali.

  • h 11:00 Raccolta
    Ritrovo sul tetto
  • h 12:00 Abitare il post-disastro
    Assemblea aperta su ecologie creative e pratiche territoriali
  • h 13:30 Banchetto
    Pratica collaborativa di assemblaggio e condivisione di preparati vegetali pluricomposti
  • h 15:00 Dessert
    Confronto aperto sul lavoro culturale in Puglia a cura di Salgemma


La prima fase, “Abitare il post-disastro”, è un’assemblea aperta su ecologie creative e pratiche territoriali, a partire da riflessioni condivise di Ilaria Lupo, Martina Muzi, Ilenia Caleo.

Hanno contribuito alla conversazione:
Martina Muzi, Ilaria Lupo, Alessandro Bonizzoni (Fosbury Architecture), Matteo Pala, Alessandro Esposito, Cosimo Terlizzi, Ilenia Caleo, Erika Grillo, Peppe Frisino (Post Disaster), Marco Petroni, Pierfrancesco Lafratta, Irene D’aló.

Gabriele: Questa città per noi (Post Disaster) è un laboratorio di sperimentazione: la crisi che la città sta attraversando vogliamo interpretarla come una risorsa per un meccanismo di produzione di immaginario.
L’idea alla base di questa assemblea è stata invitare delle persone a condividere delle riflessioni su questa città, o su temi che questa città interseca, a partire anche dalla propria pratica, dalla propria curiosità, in modo tale che queste riflessioni funzionino come “trigger”, dispositivo di innescamento di risposte, che possano poi generare un flusso di conversazione dove non abbiamo il controllo dei contenuti. 

Martina: Ognuna di noi ha una relazione diversa con la città. La mia reazione in questi due giorni è di silenzio, la città mi ha abbastanza ammutolito. Se vogliamo usare questa parola, però, “immaginazione”, la città mi ha portato delle riflessioni.
Ho studiato design, vivo a Rotterdam da due anni. In Italia ho vissuto a Genova, Milano, sono di Roma, mia madre è di Canosa, quindi l’Italia la conosco per momenti diversi, luoghi diversi. Insegno alla Design academy di Eindhoven che è una scuola famosa perché approccia il design in modo molto sperimentale e lo proietta verso altre discipline. In particolare ho iniziato questo corso, Studio Technogeographies che si occupa della relazione tra ambiente e i sistemi tecnologici e come le tecnologie creano queste sovrapposizioni e influenzano la produzione culturale, e la relazione tra ambiente domestico e spazio pubblico, e soprattutto capire come i luoghi, le persone, gli oggetti sono connessi.
La mia domanda è: in che modo si comunica? I tetti, tra di loro, come sono connessi? Alcuni più alti, altri più bassi, indicativi di viste diverse e potenzialmente di diversi immaginari. Mi hanno fatto nascere questa idea dell’isolamento e della connessione.
Altre parole chiave che vorrei condividere, nate dall’incontro con la città vecchia, e anche molto con voi, parlandone, sono l’abbondanza e la scarsità, che sono parole chiave anche nella mia pratica di ricerca.
Quando faccio ricerca a volte faccio film. L’esperienza più formativa che ho avuto è stata in Cina nel mercato elettronico di Shenzhen, che mi ha portato ad osservare altre dinamiche in altre parti della Cina, per connetterli da lì ad altri luoghi.
Queste due parole sono sempre fondamentali per me, perché creano delle connessioni.
Si guarda al mercato – che secondo me è un elemento della città fondamentale, perché rispecchia una serie di dinamiche – sia quelle produttive che ambientaliste ma anche domestiche…
C’è sempre questa riflessione su “Quali sono le  energie che esistono su un luogo e quali sono le energie che invece mancano?”. Non solo nel luogo stesso ma anche connettendo altri luoghi. Per esempio qui c’è una abbondanza di spazi, ma una scarsità di manutenzione degli spazi, oppure c’è abbondanza di produzione industriale, ma una scarsità di connessione o di conoscenza di come questa produzione industriale connette altri luoghi. Queste sono un po’ le riflessioni che sarebbe bello condividere con chi vive qui o chi vive in prossimità.
Un altra cosa su cui ho riflettuto, partendo dalla mia posizione di designer e di curatela del design è: che tipologia di programmi, di formati si creano, anche connessioni con istituzioni o non istituzioni, o con infrastrutture. Per esempio questa è una infrastruttura architettonica, che si connette ad altre tipologie di infrastruttura.
Inoltre ho riflettuto ieri sul concetto di rappresentazione. Nel momento in cui si crea un evento cosa si sta rappresentando? cosa si sta cambiando? A volte quando si parla delle ricerche meno connesse al territorio, il design rimane come forma di rappresentazione soltanto. Quindi magari per chi rimane (sul territorio) o anche per i Post Disaster: come si può inserire il tempo, in cicli, non solo i cicli del calendario standard, che si demolisce ogni giorno? O come si può superare, ad esempio, l’idea di rappresentare il tetto attraverso ad esempio farci degli eventi o portare delle persone, o come si può re-inserire in modalità diverse?
Queste sono state le mie riflessioni, un po’ astratte. Abbiamo delle pratiche molto diverse. Come si può superare la rappresentazione di queste due parole chiave? Che è il problema, a volte, del design, che si trova a rispondere a delle urgenze in modo veloce, rappresentandole. Però poi per fortuna ci sono altre discipline che, attraverso reti diverse, linguaggi diversi – anche il linguaggio politico – riescono ad attivare meccanismi alternativi. Che è la sfida del design contemporaneo. 

Ilaria: Da tre anni vado e vengo da Taranto. Prima di venire qui, sono stata per una decade in Levante, 4 anni in Palestina e sette a Beirut e sono neanche tre anni e mezzo che sono tornata. Per me c’è ancora l’eco dell’esperienza precedente, un continuo riadattarmi, ricercare delle forme di adattamento ai contesti rispetto a quelli dove mi trovavo prima.
Sicuramente essermi trovata a Taranto, che per tanti livelli ha delle affinità con Beirut è una delle ragioni per cui mi sono sentita a casa. Nel tempo alcune cose si sono messe in campo sia al livello artistico come ricerca, sia al livello di attivismo con una serie di progetti che stiamo mettendo in campo e che per me si interconnettono – sono fortemente interconnesse – con l’identità della città. Taranto come Beirut fa parte di quei luoghi in cui diventa impossibile prescindere dalla realtà, diventa molto difficile fare astrazione, anche nella propria ricerca e nelle proprie pratiche, dalla forza delle contraddizioni del contesto.
Partirei da episodi che mi hanno fatto riflettere, legati a questa idea del cibo – in cui ci volevamo ritrovare oggi – che mi hanno colpito e fortemente impressionata. L’anno scorso mi sono ritrovata a visitare una masseria in provincia di Lecce in cui arrivando ho visto un anziano signore che era seduto all’ingresso con cui ho cercato di intrattenere una conversazione di conoscenza, di fare due chiacchiere, e vedevo che lui mi guardava e non reagiva. Sono entrata dentro e le persone all’interno mi hanno spiegato che da quando il suo campo di olivi, che si trovava in quella masseria, a causa della xylella, è morto, si è disseccato, lui è rimasto muto. Da quel momento non ha detto una sola parola. Questo episodio mi aveva fatto riflettere su una serie di dinamiche.. il che dà l’idea del disastro, ombrello che ci accomuna, inevitabilmente.
Avevo poi pensato di leggere qualche riga di dialogo di un video inedito di una collezione d’archivio su cui sto lavorando, come intro, poi ne parliamo dopo. 

“Abbiamo fatto un esperimento, abbiamo fatto analizzare questo pezzo di formaggio per vedere se conteneva… No…”

“Abbiamo fatto un esperimento, abbiamo fatto analizzare questo pezzo di formaggio in un laboratorio specializzato in analisi… No, troppo”

“Abbiamo fatto un esperimento, abbiamo fatto analizzare questo pezzo di formaggio che appunto… tranquilli, tranquilli…”

“Abbiamo fatto analizzare questo pezzo di formaggio che è stato prodotto con latte di capra che ha pascolato in questo campo… No.”
“Abbiamo fatto un esperimento, abbiamo fatto analizzare questo pezzo di formaggio che è stato prodotto con latte di capra che hanno pascolato in questa zona… che hanno pascolato in un’area vicina… No… Che è prodotto con latte di capra che hanno…”

La voce narrante è una persona che molte di voi conosceranno, Alessandro Marescotti, attivista di Peacelink che in questo video stava davanti le telecamere di una trasmissione televisiva denunciando la scoperta della contaminazione di diossina rientrata nella catena alimentare di Taranto.
Stava sostanzialmente denunciando per la prima volta il disastro, l’esistenza, del disastro, prima non articolata. Da qui la sua continua necessità di riformulare.
Questi due episodi mi hanno fatto riflettere, oltre alla relazione con la città, al cortocircuito (in questo caso della parola) in un caso permanente, nell’altro temporanea. Ciò porta una forte significazione in sé: da un lato il disastro deflagra, dall’altro, deflagrando, ricomincia una catena di micro e macro cortocircuiti. In questi non si può più nemmeno trovare la causa originale, e da un certo momento in poi non ha più senso neanche cercarla.
Questo cortocircuito diventa una sorta di nuova condizione, un nuovo orizzonte di senso. Rispetto a Beirut mi veniva da fare una riflessione in relazione a Taranto e Beirut, su come il cortocircuito poi si traduce in ambienti spaziali.
Una cosa che mi ha colpito, ed è affine tra Beirut e Taranto, è proprio questa relazione con i tetti, il fatto che i tetti sono gli spazi in cui si vive la realtà comunitaria, in cui si stabiliscono i rapporti di vicinato. È un livello al di fuori della orizzontalità della città, che da un lato permette di vivere ma dall’altro permette di nascondersi.
Sono i luoghi in cui ci si ritrova. A Beirut dopo la guerra civile molte parti della città non sono state ristrutturate e tutto il sistema elettrico è esposto. Qui a Taranto questo si può vedere in alcune parti ma lì ha una dimensione veramente molto evidente, come se i palazzi fossero sventrati. E quindi tutti i palazzi sono collegati da queste quantità enormi di cavi elettrici di tutti i tipi, che vengono usati per tutta una serie di funzionalità, necessarie al vicinato. E siccome per questa ragione il sistema elettrico è molto fragile, quando avviene un cortocircuito (e improvvisamente l’elettricità salta) tutte le persone che abitano in un palazzo salgono sul tetto, e tutti i tetti sono equipaggiati con situazioni – candele principalmente, panche – in cui si va ad aspettare la fine del cortocircuito. Questo mi ha fatto riflettere, pensare ad alcune situazioni, realtà urbane in cui l’interdipendenza con le comunità è così più forte.
Si sta perdendo oggi, soprattutto dopo la pandemia, con questa idea di comunità virtuali che stanno diventando la realtà dei nostri rapporti sociali, una modalità di connessione produce un’astrazione sempre più forte rispetto ai luoghi in cui abitiamo.
Mentre il cortocircuito, inevitabilmente, ti lega, perché sei così strettamente dipendente dalle altre soggettività che non hai scelto e che si trovano in quel luogo con te. Questo aspetto mi ha fatto riflettere sull’importanza che può avere l’idea di trovarsi in un orizzonte direttamente e fisicamente di dipendenza con i luoghi. 

Matteo: Io studio al Politecnico di Milano Architettura e sto facendo una tesi e sono qui per questo. Mi sembrava interessante… Non ero mai stato a Taranto e questo progetto connota il tipo di immaginario – che non avevo – della città, che inevitabilmente viene condizionato da questi tre giorni.
La mia tesi (una ricerca e un progetto) cerca di lavorare su queste strategie di appropriazione e sul ventaglio di veicoli di questo lavoro, e sto cercando di lavorare sulla musica, cercando di costruire una narrazione, un immaginario che parte dalla cultura dell’appropriazione in relazione alla storia della musica elettronica. 

Alessandro: Ciao a tuttu, io sono Alessandro, sono un attivista di un collettivo che si chiama Raggia Tarantina, di Taranto. Parlo dalla prospettiva di chi ha vissuto a Taranto, di chi prova a viverci, a tornarci, perché Taranto è un circolo vizioso della migrazione. La migrazione è uno dei primi elementi che vorrei mettere in campo perché è fondamentale nell’esperienza che facciamo dello spazio cittadino.
È una migrazione costretta: siamo costrette a migrare da Taranto e lo facciamo, in partenza, con una mancanza di visione che dipende molto spesso da quali pratiche si sono incrociate nel territorio. Io sono andato via da Taranto quando avevo 18 anni e sono andato via odiando questa città, per il problema che individuavo allora: l’ILVA e quello che aveva causato alla mia famiglia – che non è una famiglia speciale, ma una famiglia come tante altre di Taranto. Andando fuori ho mantenuto inizialmente questa visione e solo incrociando ad un certo punto i processi politici, e tornando a Taranto per quattro anni, ho cambiato visione.
Quello che vorrei portare come contributo alla discussione è questo: a volte la criticità di Taranto – non solo di Taranto, ma di tutto il Sud Globale – è quella di utilizzare categorie (involontariamente) che non sono quelle di chi vive il territorio.
Dall’esterno il problema di Taranto è l’ILVA, e anche nel fare pratiche politiche si rischia spesso di catalogare tutto come “il problema di Taranto è l’ILVA”.
Invece le contraddizioni che determinano questo spazio, nella mia percezione, nella nostra percezione, mi sembra che siano molto più di questo. L’ILVA è l’espressione di contraddizioni che puoi vivere nei processi della città. Una città in cui gli immaginari si costruiscono in spazi come questi, in spazi di pratiche politiche, tenendo vivo il conflitto.Dobbiamo riuscire a staccarci dalla narrazione che ci viene data di Taranto, anche rispetto alla questione ILVA. Quella fabbrica deve chiudere per quanto mi riguarda, ma non può essere l’unico spazio di discussione.
Prima di tutto, che immaginari abbiamo? Anche del turismo, ad esempio. Da fuori, per un tarantino, anche se non attraversato da processi politici, la retorica potrebbe essere: “pur di non morire di ILVA, preferirei il turismo.” Magari incontri anche gente di qui che ti dice “Si, vorrei il turismo”. Poi però cominci a vedere le prime cose che non riconosci, che non ti appartengono. E lo comprendi quando incontri la gente nelle assemblee, nei comitati, e ci discuti. Tra di noi ci chiediamo “Ma sta roba a te ha dato fastidio? A me si. Tu ti ci ritrovi? Ci vivi dentro oppure no?”.
Questo per dire che è importante qualsiasi cosa, sul territorio di Taranto, che innesca reti. Che è importante che si attivino processi di confronto, il più largo possibile, qui sul territorio. Per questo motivo, per riuscire a pensare Taranto, dobbiamo pensarla soprattutto vivendola, vivendola politicamente.  

Ilenia: Io sono Ilenia, inizio restituendo questo sguardo estraneo, di chi arriva da fuori. Come riusciamo a miscelare il fuori e il dentro in forme di alleanze politiche? Anche per me è stata la prima volta a Taranto, abbiamo prima conosciuto la città dal rapporto con il collettivo allargato di Post Disaster e per me, per motivi politici, il contatto con Taranto è stato all’altezza degli anni ‘12 con la lotta sull’Ilva. Io sono nata e cresciuta a Livorno, in un contesto per certi versi molto simile. Mio padre è stato un operaio del cantiere navale, di quelli che hanno beneficiato della pensione anticipata per l’esposizione all’amianto. All’epoca della nascita delle lotte del Comitato, noi in quel momento (come artiste e lavorat dell’arte e dello spettacolo) stavamo occupando il teatro Valle. Era un momento di grande intensità e attivismo, a differenza di questa fase, e la nostra pratica nasceva dentro il contesto della crisi economica, intorno al discorso sul precariato… E forse rispetto a quella cosa che hai detto (a Martina) “abbiamo posizioni molto diverse e pratiche molto diverse”, mi viene invece da dire che pensavo il contrario: veniamo da discipline diverse ma mescoliamo le pratiche, mescoliamo le discipline, e forse se dovessimo fare tutte quante l’elenco dei lavori che abbiamo fatto nella vita, mescoliamo diverse precarietà che alla fine non fanno mai un intero.
Quindi, dicevo, il primo contatto fu attraverso questa lotta. Ora tornarci e vedere Taranto è stato potentissimo. Da una parte quello sguardo interno. Dall’altra invece, arrivando da fuori, vedi tutte le interconnessioni o la possibilità di generalizzare le questioni in termini di alleanze politiche… Questa città è davvero una mappa delle questioni di adesso, perchè c’è l’Ilva, così addosso che lo puoi capire solo se ci vieni, ma c’è anche la base nato, il porto industriale, tutto un territorio che è inaccessibile alla cittadinanza, poi entri qui in città vecchia ed è una cosa pazzesca, un di-più di bellezza e al tempo stesso attraversandola pensi: quanto durerà questo? Perché noi abbiamo già negli occhi la proiezione di quello che può diventare attraverso il turismo.
E quindi, qual è l’alternativa? L’alternativa a questo sistema in questo momento non esiste. O l’industria pesante, la necro-politica dell’ILVA, o l’industria pesante del turismo, l’espropriazione, la messa a valore… Non siamo in un momento di particolare intensità politica. Io sono appena rientrata dalla Francia, dove la lotta ecologica e il climattivismo si sono saldate con le lotte sulla riforma della pensione. Mentre eravamo in piazza in quei giorni mi è capitato tra le mani questo volantino che diceva (come sempre con quell’intelligenza collettiva che sintetizza): “scioperare contro la riforma è un eco-gesto”. Quindi pensare la lotta sul reddito come un gesto di attivismo ecologico. Dico questo perché, arrivando qua, ho pensato che ci sono tutte le questioni attive per pensare politicamente insieme. Anche le alleanze interspecie. Quindi questa è una questione: come ci mettiamo insieme?
Per questo la lotta del comitato sull’ILVA, almeno inizialmente, fu una lotta importante perché poneva la questione del lavoro insieme alla questione del reddito. Le lotte sul reddito, la redistribuzione delle ricchezze, sono un piano di lotta ecologica, ambientale, fondamentale. Quindi farei un discorso su come riapriamo un piano legato alle questioni economiche, della vita.
Dobbiamo uscire dalla logica che la questione ecologica è una questione individuale. Non sono i nostri comportamenti individuali che producono il danno. C’è alle volte un’alleanza nociva tra cultura, arte e territori, perché spesso le azioni artistiche e culturali sono utilizzate come messa a valore dei territori. Allora come facciamo noi, ad esempio, a boicottare?
La vostra pratica per me in questi giorni è stata un esempio. Come agisci dentro il territorio ma senza produrre un’ulteriore messa a valore? Però è una questione che va posta all’interno dei nostri ambienti artistici e culturali: spessissimo vediamo queste astronavi iper-finanziate. Perchè diciamocelo, la catastrofe, la fine, il disastro, sono concetti fighi, sono cool, il mondo dell’arte guardà lì, è una forma ulteriore di messa a valore. Come ci muoviamo – dalle nostre pratiche, dalle nostre prospettive –  senza rinunciare a intervenire, ma politicamente, senza riprodurre un’estetica (della fine, del disastro, della catastrofe), non sopravvivendo con, ma appunto trovando forme di conflitto anche dal nostro posizionamento?
Un’altra domanda a cui tengo: come riusciamo a tenere insieme il piano dei corpi, della sessualità, della vita, della salute con il piano dell’ambiente e dell’ecologia? È per me una domanda molto forte, perchè i corpi non sono mai corpi in generale, in astratto, sono sempre corpi che stanno in un posto, che nascono in un luogo, che hanno una pelle, una lingua, questo è quello che il femminismo ha ri-politicizzato.
Avete parlato dell’andare via e del tornare, mi vengono in mente le parole sempre potentissime di Bell Hooks, femminista nera americana che dice: “bisogna andare via dalla casa, perchè la casa è un luogo di violenza, per poter tornare alla casa e riconoscerla come un luogo di resistenza”. Questo movimento è una forma di conflitto. Quindi, come mettere a sistema quello che abbiamo imparato con le nostre lotte frocie, lesbiche, queer, trans, quello che abbiamo imparato sui corpi, dentro contesti dove i corpi sono effettivamente messi in gioco su molti altri fronti?
Durante il covid c’è stata una discussione collettiva contro il virus che ha mobilitato una retorica di militaresca, e che ha prodotto una vera e propria guerra, in Europa. Il discorso come una cosa che prepara, le politiche, il potere performativo delle parole. Invece il femminismo ha prodotto un altro tipo di discorso: vedere il virus come un corpo che agisce tra i corpi, che agisce fuori dal nostro controllo. È stato molto importante vedere come le questioni che era difficile portare al centro del dibattito (il lavoro di cura, da chi lavorava nella sanità a chi lavora nel lavoro domestico, i lavori invisibilizzati e femminilizzati diventati centrali, le lotte dei rider) sono state rese visibili. E l’abitare: come ci è diventato chiaramente visibile, il virus è democratico ma le condizione in cui viviamo non lo sono affatto, e la disuguaglianza ambientale e abitativa ed economica era una variabile molto forte. In tutto questo, il femminismo è riuscito a produrre un discorso alternativo a quello militare.
L’ultima cosa che dico, in riferimento al transfemminismo, è la parole cura (che si è molto usata in questi ultimi anni). È interessante perché i femminismi la trattano in tutta la sua ambiguità, laddove i corpi delle donne sono stati trattati come se fosse naturale la pratica della cura, c’è un’affinità forte tra come trattiamo risorse e territori, e i corpi: un modello estrattivo, sia dal punto di vista della produzione industriale che da quello del lavoro sessualizzato. Invece cura diventa una parola con tantissime sfaccettature. Quindi la aggiungo a quelle che avete proposto. Un’idea non pacificata di cura: non come si rimedia, come si aggiusta il pezzettino lacerato, ma la cura come possibile forma di conflitto in alleanze che non sono solo tra umani. Ed è una parola che mi ha risuonato molto in questi giorni stando qua.
Cosimo: Abito nella campagna tra Ostuni e Carovigno, nel pieno della teatralizzazione dell’immaginario pugliese. Sono tornato dopo essere andato via da Bitonto. Penso che sia importante andare via dai propri paesi per ritornarci. Io sono tornato, non perché amassi la Puglia, ma per l’idea di ritrovare il famoso contatto con la terra che ho trovato all’interno di un uliveto – che fa parte anche del nostro disastro, di questo immaginario che veicolava un’idea di vita e sogno. Siamo anche il frutto di questa monocultura dell’ulivo, come siamo il frutto dell’ILVA, arrivata grazie a un immaginario, il sogno di raggiungere gli altri.
Volevo dire questo rispetto a questa questione dell’immaginario, perché è un tema su cui stiamo lavorando. La gente che viene a visitare il nostro giardino-atelier (Lamia Santolina) si innamora di questo ritrovo della ruralità, quindi molto spesso compra la terra e ristruttura (o costruisce) una casa. Quindi c’è questa contaminazione di una possibilità di vita che innesca una sorta di manierismo del vivere. Molte case si assomigliano, tutte hanno la piscina… Questo è un immaginario che è forse dettato da una cultura massificata del vivere il sogno.
Taranto era partita da lì, dall’idea di emanciparsi. Da cosa? Da una cultura contadina che adesso invece rappresenta il lusso. Quindi io ho una cultura nichilista ma anche propositiva rispetto al disastro: possiamo contenere il disastro ma non fermarlo, creare possibili ecosistemi tra elementi culturali, ascolto e sinergia. In questi anni per noi è stato importante riflettere su quello che il nostro immaginario può innescare. E quindi contenere il danno.
Stiamo iniziando a proporre un’idea di auto-sufficienza dell’abitato. L’ecosistema non è solo tra umani, ma è convivere con il selvatico. Noi facciamo questo all’interno della monocoltura dell’uliveto, di una cultura mono-colturale. E facciamo l’olio, senza rinunciare alla Xylella, perchè la Xylella fa parte, come l’ILVA, di un ecosistema che abbiamo creato noi.

Erika: Io mi occupo di arti performative e spettacolo dal vivo, faccio parte di una compagnia di Massafra, non lontano da qui, che si chiama Teatro delle Forche, residenza artistica riconosciuta dal Ministero ma non riconosciuta dal FUS – evidentemente perché ci preoccupiamo di fare spettacoli scomodi in posti scomodi con al centro dinamiche politiche.
La domanda che faccio e metto al centro di questo cerchio è: qui, ora, su questo tetto, e da molti anni su questi tetti, si affrontano questioni che a noi tutti sono chiare. Noi siamo già alleati di questa lotta, di queste lotte, che sono molteplici, plurali. Il problema sono gli altri. Perché io non ho bisogno di chiedere alle persone qui presenti “chi siamo?”,  perché ci conosciamo benissimo e portiamo queste riflessioni in tanti luoghi, nel quotidiano, nei nostri corpi. Il pensiero di appartenere alla lotta per noi è quotidiano.
Ma come raggiungiamo gli altri, in una città che ha centinaia di migliaia di abitanti?
Perché non riusciamo a focalizzare qualcuno attorno al nostro pensiero, che non è un pensiero solo di vita, di corpi, di abitare, di ambiente, di dove farci la casa, di come coltivare un uliveto, come risparmiare l’acqua, di come far chiudere la fabbrica…
Dove sono gli altri? Questa è una domanda dalla quale non possiamo prescindere perché qui ci siamo e ci ri-conosciamo, almeno ci sentiamo meno soli. Ma siamo pochi! Fuori di qua c’è una collettività, pluralità che ha perso l’occasione di confronto, che non ha stimoli per fermarsi a riflettere attorno alle questioni.
Dove, a Taranto si è creata la possibilità di un laboratorio politico, di un dialogo, di un conflitto? Perché il conflitto è al centro non solo dell’arte che pratichiamo, ma della vita. Il conflitto cattura l’attenzione, poi quando si annulla non ci importa più niente perché forse  non sentiamo tutti quell’urgenza allo stesso modo. Noi la sentiamo perché siamo votati ad un’ esistenza a lungo termine, dopo di noi. Ci facciamo la domanda: “che cosa ne sarà dopo di noi, cosa lasciamo a chi rimane?”.
Mi sembra che fuori di qui ci sia un desiderio da consumare subito e una propensione all’impermanenenza. L’ appagamento di questo desiderio io lo voglio qui ora! Mi interessa che qui, ora, qualcuno risponda alla mia urgenza effimera.
Quest’ottica di lungo termine appartiene a un pensiero filosofico che crea un laboratorio politico, che crea il riconoscimento politico. Voi andate a votare? Io non lo so più. Mi faccio un sacco di domande. Voto il meno peggio.
Come portiamo questa discussione in una dinamica di consenso? Noi abbiamo una base di consenso tra di noi. Ma questo nostro virus, come lo infiliamo nei tavoli di decisione politica, nell’azione, nel decreto legge? Come si traduce in un consenso? Perché gli altri esistono e creano consenso – e sono bravi nel farlo. E noi non siamo bravi a creare consenso, perché se no, qui oggi, non ci saremmo solo noi. Ci sarebbero 1.000 cittadini di Taranto su 200.000.
Sarebbe auspicabile… ma non è cosi! E la domanda che per me ci dobbiamo fare non è convincerci delle nostre teorie ma: “gli altri dove sono?” Il vero nostro problema è che abbiamo smesso di incontrare gli altri.
A teatro non viene tanta gente, abbiamo una comunità di spettatori che tornano, escono felici perchè abbiamo rimestato i loro dubbi.  Ma loro non sono in grado di diventare lievito rispetto a chi non la penso come noi.
Quando abbiamo smesso di essere lievito, di creare consenso, di preoccuparci degli altri?
Adesso ci interessa che dirci le cose tra di noi? No! Andiamo da quelli che ci vorrebbero morti! Io vorrei parlare con loro. Non ci vogliono incontrare? Andiamo a sederci sulla porta della loro casa. Sono tantissimi. Nell’agosto del 2012 quel manipolo di esauriti sono andati nella piazza con il tre ruote, hanno fatto scendere i sindacalisti dal palco, hanno preso i microfoni e hanno iniziato a gridare!
La parola se la sono presa loro, non è che qualcuno gliel’ha data. Si sono auto-organizzati, hanno messo le casse sul tre ruote, e si sono presi la parola.
Hanno fatto delle azioni di rottura. In campo artistico le azioni di rottura sono complicate, perchè poi non ti finanziano. Ma tanto non arrivi a fine mese lo stesso, quindi le facciamo ugualmente. Però come creare l’azione di rottura che innesca consenso e fa in modo che su questo tetto non siamo sempre gli stessi?

Peppe: Post Disaster è una pratica collettiva, che tende a riunire corpi, catalizzandosi in alcuni momenti. Per noi il collettivo di Post Disaster è questa assemblea qui. Siamo tutti corpi che hanno attraversato gli spazi in questi giorni. È una pratica spaziale perché riflette su come i corpi possano interagire con un contesto territoriale, non solo urbanizzato, ma territoriale. Ed è una pratica relazionale, perché quello che facciamo è confrontarci con il territorio – che ha una grande complessità – e abbiamo iniziato a farlo anche in maniera molto sprovveduta, con delle riflessioni che partivano da pratiche individuali, dal confronto. Questo confronto che ha fatto nascere (ed espandere) l’idea è il cuore del nostro progetto. Ora gli allestimenti ci piacciono perché veniamo dal design, dall’architettura… ma sono opportunità per esprimerci su un piano artistico – che il contesto professionale ci nega. Uno spazio di libertà che ci prendiamo e apriamo. E nasce da persone che hanno subito l’essere costretti alla diaspora verso contesti economici e culturali più sviluppati.
Io personalmente ho studiato a Milano e Venezia, centri dell’economia finanziaria e dell’economia culturale – dove fondamentalmente gli studenti sono manodopera. Sono rientrato a Taranto nel 2012 perché quello che è successo il 2 agosto 2012 ha aperto una finestra di possibilità fino ad allora impensabile. Le compagne ed i compagni che erano in piazza hanno regalato alla città di Taranto intera un immaginario nuovo, qualcosa che in altre città, le occupazioni dei lavoratori dell’arte e della cultura stavano facendo, a Taranto lo hanno fatto gli operai con i compagni dei movimenti.
Io non sono un attivista politico, non sono nelle assemblee come attivista, ma ci sono come cittadino e attivista culturale. Penso che le assemblee diventano spesso dei luoghi in cui il conflitto non trova una risoluzione ed è il motivo per cui oggi qui siamo una comunità rarefatta di persone che ci raggiungono da tutta Italia e si ritrovano a condividere fisicamente, con i propri corpi, uno spazio di discussione che sempre più spesso ci viene negato. Questa comunità che si ritrova su questo tetto ricoperto di polvere di minerale della fabbrica…
Noi pensiamo di essere soli in questo contesto assembleare, ma non consideriamo che il nostro stare qui sta fornendo a una intera comunità di abitanti della città vecchia di Taranto una domanda: “ma questi cosa stanno facendo lì sopra? Perchè ci sono tante persone che all’una di domenica invece di mangiare a tavola stanno sul tetto a parlare?”
Questo accendere domande, permettere agli altri di porsi delle domande è uno dei motivi per cui penso che questa assemblea non è formata solo da 40 persone. Non è formata certo da 180.000 abitanti, però dobbiamo essere coscienti che il nostro allearci, il nostro stare insieme qui oggi è un’azione molto più ampia di quella che possiamo immaginare.
Vi pongo una domanda: avete la coscienza dell’essere in un contesto fortemente stigmatizzato, in cui in virtù di uno sviluppo turistico la linea principale di molti cittadini è quella di prendere gli abitanti della città vecchia e delocalizzarli altrove?

Marco: La mia conoscenza di Taranto è mediata da questo progetto, che seguo dalla prima edizione. È un progetto di comunità che ci ha chiesto sin dall’inizio di condividere due parole chiave, che è un po’ l’orientamento delle parole che svilupperò successivamente: riscrittura e immaginazione. Provare a riscrivere la storia di un territorio è già un’azione fortemente politica, ma prima di tutto un’azione di progettazione, di trasformazione del punto di vista su un luogo. Già il punto di osservazione scelto da Post Disaster scompagina un po’ lo sguardo sulla città. La riscrittura, per sua natura (mettersi davanti a una pagina bianca) richiede un’azione. Anche il progettare richiede un’azione. Anche le comunità devono operare agendo. E anche l’immaginazione è una parola composta di immagine + azione, rappresentazione di un luogo, ma anche azione. Occorre agire.
Bell Hooks, citata da Ilenia, ci insegna due cose: da una parte “insegnare a trasgredire” – ed entrano in gioco anche i processi educativi: già provare ad immaginarsi comunità è già un processo educativo, se non altro l’educazione di uno sguardo differente, molteplice, aperto sulla città, la ricerca di nuove alleanze; dall’altra, “l’elogio del margine”. Io vivo a Lecce in Salento. Lecce e Taranto sono connessi nel disastro: lì la Xylella, qui la fabbrica, tutto un ecosistema che salta. Tutte queste operazioni di riscrittura di immaginazioni e punti di vista differenti sono già delle azioni politiche, delle azioni trasformative, nel momento in cui si dichiarano aperte. Oggi su questa terrazza poteva venire chiunque a condividere queste parole. Ma la battaglia politica ruota attorno a questa possibilità di riscrivere la storia: qui erano uliveti. Chi ha deciso che la fabbrica dovesse sostituire il modello di esistenza? Proviamo a creare degli inciampi in questi processi storici accettati passivamente in cui poi domina il ricatto tra salute e lavoro..
Qui c’è della violenza da parte del capitale, e quindi bisogna trovare gli strumenti immaginativi per relazionarsi con questa violenza. L’apertura, la molteplicità, trovare nuove alleanze è l’azione politica che possiamo fare come architetti, designer, artisti, precari di questo mondo che dovrebbe completamente cambiare il proprio paradigma di riferimento. La violenza del ricatto tra salute e lavoro è una violenza antropocentrica, nel nostro piccolo dobbiamo costruire alleanze ecologiche, di cambiamento, di riscrittura del nostro modo di vivere. E questo è architettura, progetto, vita.
Trovarsi come comunità e condividere questi temi è azione vitale necessaria, a mio avviso, improrogabile. Poi il gruppo è allargato, pone questioni, molteplicità di punti di vista che stiamo attivando. Siamo aperti alla condivisione. La trasformazione la stiamo già facendo: una trasformazione relazionale. 

Pierfrancesco: Ciao a tutti, sono Pierfrancesco, fotografo di Taranto, e il mio punto di vista penso che sia un punto di vista privilegiato.
Il contesto in cui siamo adesso penso che sia un contesto di enorme privilegio, non perchè abbiamo famiglie ricche o capitale, ma perchè abbiamo avuto in un certo momento della nostra vita la possibilità di operare una scelta. Credo che la differenza tra chi è qui oggi in un contesti come questi e chi non c’è, è legata al fatto che nel tempo si è operata chirurgicamente la possibilità di togliere alle persone la possibilità di scegliere. O quantomeno di sentire cosa è sconveniente oppure no.
Nelle mie riflessioni personali credo che questo sia il concetto base su cui le ipotesi di trasformazione dovrebbero iniziare a ragionare, perchè molte volte mi sono trovato a discutere con le persone che abitano qui in città vecchia, e l’esito della conversazione è: “lo so ma non posso, non posso sottrarmi al destino che ho, non ho gli strumenti, non ho la forza”. Il poterlo fare oggi credo che sia il discrimine. È chiaro che i soldi aiutano, ma anche la possibilità di intravedere cosa è meglio per noi o cosa non lo è. Abbiamo la possibilità di intravedere in prospettiva, magari oltre noi stessi, immaginare la società e il mondo tra 100 anni. Magari l’arte o gli artisti, o chi ha la possibilità di riflettere o di immaginare, più che generare domande – alle quali magari le persone non hanno gli strumenti per rispondere – dovrebbero descrivere un’ipotesi, dalla quale far nascere la possibilità di una scelta.
Io prima di fare il fotografo ho lavorato in ILVA per 17 anni. Mia figlia, nascendo, mia ha dato l’opportunità di farmi una domanda su quale fosse il futuro. Ho voluto rischiare un po’. Mi sembra che l’arte abbia ridotto rischio. Ad esempio in fotografia non si rischia più, si chiama contemporanea la fotografia nata negli anni 70-80. Quindi credo che il sistema dell’arte dovrebbe cercare di rischiare un po’ di più.
Dovremmo partire dal presupposto che siamo in una posizione privilegiata e dovremmo fare in modo che agli altri venga consentita almeno una volta nella vita la possibilità di una scelta.
Oggi i diritti sociali e quelli civili sembrano essere andati in contrapposizione, come se dovessimo essere noi ad operare la scelta: “per cosa lotto?”. Abbiamo il ricordo degli anni ‘60, ‘70, del ‘77, in cui c’era un sentire comune su questi temi, che non erano specifici di una parte, ma conveniva a tutti lottare e rischiare. Un conflitto senza rischio è inutile, forse.

Irene: Sono andata via da Taranto a 22 anni e non c’ero nel 2012 nell’azione politica di conversione che ha dato via a questi movimenti e la creazione di questi collettivi. Sono andata a studiare a Venezia allo Iuav e quando sono tornata ho avuto un momento di sconforto per via del Covid, la precarietà e come sostenersi. Qui non si può fare niente, non riesco ad andare avanti. Però devo ringraziare tutti quelli che sono su questo tetto – Erika, il Teatro delle Forche, Post Disaster, il Crest – perchè mi hanno dato modo di avere un respiro, di chiedermi “gli altri dove sono?”.
Perchè quando torni e non sei più capace di rivivere quella condizione che vivevo in altre città, come Venezia, Bologna… Ti senti persa, totalmente. Io questi tre giorni l’ho vissuta, e la sto vivendo adesso… insomma ho sentito la vera connessione con il territorio quando ieri, durante la performance, c’era una signora che stava stendendo i panni, si è fermata, ha messo i panni accanto e ha iniziato a guardare. C’è curiosità. Questa è la risposta: creare delle opportunità che diano modo di creare connessioni pian piano. Non so cosa succederà in questa città, se il turismo o altro, ma credo che questi animi che vanno via – ma poi tornano – hanno modo di creare e portare avanti questa positività. 

Gabriele: Per una questione di tempi dobbiamo andare in chiusura dell’assemblea, ma possiamo spostarci tutte giù dove possiamo continuare a parlare mentre mangiamo – che è la cosa forse più bella di tutte – e io e Grazia continueremo a girare intorno ai tavoli mentre voi tagliate la verdura.