EP01 Taranto 2049. Is this fading-city on the Ionian Sea cooler than Blade Runner?

Decentralizzare Decolonizzare

Marianna D'Ovidio, Lorenza Baroncelli, Michele Bee, Chiara Giubilaro, Valeria Cifarelli

A cura di: Post Disaster

Conversazione,

08.09.2018

40.4765882, 17.2292518

Marianna: Avevo preparato un’introduzione su Taranto ma la performance dei Where Is Wave? mi ha fatto pensare molto a Linz, città austriaca che ospita una delle più grandi acciaierie d’Europa – oggi una delle più sostenibili. Parallelamente alla produzione dell’acciaio, a Linz si è sviluppata una storia legata alla musica elettronica e ad un festival che è partito dalla necessità di riportare i suoni della fabbrica prima ad una scala urbana e poi globale.
L’idea di questo incontro è discutere della cultura nella rigenerazione urbana, cioè della relazione che c’è tra lo spazio urbano e la cultura. Questa suggestione parte dagli organizzatori di Post Disaster Rooftops e ne abbiamo spesso discusso insieme dal momento che che negli ultimi tre anni e mezzo passo periodicamente da Taranto perchè porto avanti una ricerca per l’Università di Bari proprio sulla capacità della cultura di diventare un volano per lo sviluppo locale. Cercheremo di capire in che modo la capacità della cultura di fare economia possa servire a far rinascere particolari contesti urbani o sociali.
Gli organizzatori di PDR ci spingono in una direzione più radicale che è quella di provare a comprendere come la cultura possa essere uno strumento di rigenerazione urbana attraverso la sua capacità e il suo spirito critico in un contesto che definiamo “marginale”.
Con loro abbiamo definito il contesto di Taranto come un contesto relativamente marginale rispetto ai flussi del capitale, anche se la presenza di un’area industriale così complessa la rende centrale rispetto ai flussi economici del capitalismo globale. La questione è provare a capire in quale modo la scena artistica e culturale sia capace di influenzare l’azione economica sullo spazio urbano.
Personalmente penso che non si possa considerare in nessun modo la cultura o l’arte al di fuori del mercato, però penso che sia particolarmente interessante ragionare in questi termini: in che modo l’arte, in un contesto che è per certi versi marginale al capitalismo, può diventare uno strumento forte di rigenerazione urbana?
Il primo tema che vorrei affrontare è quello dell’arte come strumento di critica sociale. Dall’emergere dell’industria culturale e creativa, si è detto che l’arte non è più in grado di fare una critica sociale perché è troppo dentro una logica del capitalismo, e siccome non c’è più differenza sostanzialmente tra capitalismo e società, l’arte non è più in grado di fare critica sociale. Allora io mi chiedo: il fatto di stare dentro un contesto marginale rispetto al capitalismo, è un vantaggio per la scena culturale perché la rende più indipendente, più capace di fare critica sociale? Oppure si trova in uno stato di marginalità talmente forte per cui non ha risorse e pubblico?
Il secondo tema riguarda l’idea dello spazio pubblico. Chantal Mouffe ci dice che non possiamo pensare all’arte come critica sociale se non guardiamo ad essa nello spazio pubblico. Anche qui si pone il problema dei spazi marginali, perché uno spazio che è meno attaccato dai grandi flussi del capitale può comunque essere occupato da tutta una serie di soggetti che fanno egemonia al di fuori del mercato, come può essere la natura che si riappropria di un edificio o un’occupazione abusiva.
Ragioniamo quindi sui vantaggi, le opportunità e i problemi del fare critica sociale in un contesto ai margini. A questo proposito volevo chiedere a Chiara Giubilaro e Michele Bee di parlarci di questa tensione, di come si può evitare il confinamento nell’iper-locale.
A Lorenza, che ha lavorato per Mantova Capitale Italiana della Cultura, chiederei di parlarci della relazione tra il locale e il globale e dei rischi di essere travolti dalla scala globale.

Chiara: Io ho lavorato su Palermo, in particolare con una ricerca sui Cantieri Culturali alla Zisa, che è un luogo che segna un punto di inizio rispetto ad una serie di processi che poi si sono avviati. Non vi racconterò cosa è successo nel dettaglio, piuttosto vorrei approfondire le dinamiche di rischio in cui si è incappati. I Cantieri sono situati in quartiere relativamente “marginalizzato” di Palermo, un’ex area industriale che ha una superficie enorme. In quel momento, nel 2011, il dibattito sui commons era al centro della scena e a Palermo un gruppo di attivisti e associazioni decise di occupare alcuni di questi padiglioni. Il primo momento di genesi è una stato una partecipazione a un bando comunale che si rivolgeva a privati per rimettere in sesto i padiglioni. In modo inusuale vi hanno risposto un gruppo di cittadini organizzati. La città era in un momento di svolta rappresentato dal cambio di amministrazione, da centro-destra a centro-sinistra, e l’energia della campagna elettorale è stata molto propulsiva. La terza fase è invece rappresentata dal fallimento, inteso come il riassorbimento graduale di questa esperienza nelle file formalizzate del pubblico.
Quale possiamo dire sia stato l’ingrediente che ha funzionato, che ha ridato alla scena culturale palermitana una nuova spinta critica? La risposta non stà tanto nell’agonismo di Chantal Mouffe, quanto piuttosto nell’antagonismo. È come se il potenziale critico di quell’esperienza andasse di volta in volta ricercato nelle geometrie di potere che si andavano definendo.
L’antidoto all’iper-localismo in quell’esperienza è stato l’attenzione di grande scala che in quel periodo si concentrava sulla gestione di comunità dei beni in disuso. La compresenza di esperienze affini nell’ambito degli spazi comuni autogestiti (come L’asilo di Napoli, Macao a Milano, il teatro Coppola a Catania…) ha permesso di fare rete con grande fluidità. Le assemblee più interessanti di quel periodo erano quelle in cui ci si apriva ad attori estranei, che avevano animato esperienza analoghe in altri contesti.

Michele: Provo a rispondere alla questione che poni. Innanzitutto volevo ringraziare di questo invito gli organizzatori, che trovo abbastanza curiosi perché in questo contesto di disastro e crisi globali, con il mondo in mano alle dittature, l’Europa in frantumi, l’Italia disfatta, Taranto che rinnova il suo dramma… Loro ci invitano dicendo: “dobbiamo parlare”. Allora mi sono detto di sfruttare questa opportunità, e capire che caspita ci stiamo a fare qui a parlare, perché questa discordanza enorme tra l’azione e il pensiero mi interessa particolarmente.
Quindi vorrei fare un elogio del parlare, per riflettere sul valore di questa pratica. Parto dalla distinzione che fai tu perchè è molto interessante, seppure con tutti i limiti intrinseci ad una distinzione binaria, perché definisce un bivio drammatico rispetto all’etica di una persona che vuole dare un contributo efficace alla critica della società in cui vive. Da un lato abbiamo possibilità di sfruttare il potenziale mediatico dei flussi di mercato, con il rischio di ritrovarsi imbrigliati in questi flussi, talvolta alimentandoli. Dall’altro si tende a scegliere la posizione del margine che ha il vantaggio della sperimentazione libera ma il rischio di non risultare abbastanza influente.
Provo a partire dall’esperienza delle Manifatture Knos, della quale faccio parte, per esporre il mio punto di vista su come provare a uscire da questo dilemma che vede ad un estremo l’antagonista puro e auto-marginalizzato, e all’estremo opposto l’influencer conformato alle dinamiche della moda. Secondo me le Knos non sono nessuna di queste due cose, anche se chi si mette nella posizione di uno di questi due estremi ci potrebbe vedere come un ibrido poco riuscito. Il punto, quindi, è proprio non mettersi in quest’ottica e preferire una “situazione terza” (come i terzi luoghi di cui noi parliamo nei nostri incontri). Per identificare questa situazione terza ci aiuta il significato politico delle parole: le parole d’ordine della retorica antagonista, ad esempio, sono funzionali alla militanza politica ma hanno spesso il limite di frenare la libertà di pensiero; al contrario le parole di tendenza, per quanto siano più cool e seducenti, portano con sé uno svuotamento di senso inevitabile. E’ successo ad esempio con il concetto di “terzo luogo” che noi utilizziamo da 5 anni e che con il tempo è diventato di moda.
Una parola che per noi è stata una recente conquista rispetto alla nostra pratica è “indecisione”, ovvero l’idea che non avere tutti i processi sotto controllo possa portare a qualcosa di innovativo. E’ una parola che, oltre a non essere ancora entrata nel linguaggio di tendenza, ha anche il vantaggio di opporsi alla rigidità delle “parole d’ordine”. È, anzi, una parola di contrordine, che ci ha permesso uno spazio di libertà. Secondo me il problema non è tanto a chi ci si rivolge quando si dicono le cose, piuttosto il problema è come vedere le cose, il nostro livello di apertura. Quando Gilles Clément ha definito una semplice erbaccia a bordo strada come un “terzo paesaggio”, ha rivoluzionato, con una semplice operazione, il nostro modo di vedere le cose. Quindi bisognerebbe iniziare a ragionare prima di tutto sulla necessità effettiva di fare qualcosa. L’impasse nella quale si trova questa città, ad esempio, è talmente totale che forse ci si potrebbe prendere la libertà di ritrovarsi qui per parlare d’altro, aprendo così uno spazio mentale di libertà. Perché non ci liberiamo di quella parola d’ordine, diventata anche di moda, che è il “che fare”? Perché il “che fare” presuppone il fatto che siamo già d’accordo su un’ideologia di base.
Ad esempio, Manifatture Knos non è nato né in un’ottica antagonista, né come attività per fare profitto, eppure riesce a portare avanti una sua rivoluzione ed anche ad avere una sua sostenibilità economica. Proviamo, in maniera provocatoria, a non voler essere rivoluzionari perché così si apre uno spazio di possibilità affinché, poi, lo si possa essere liberamente.

Lorenza: Io vorrei mettere in discussione questa dicotomia cool/marginale perché questa divisione implica una lettura statica della realtà, obbliga a prendere una posizione, mentre credo che la realtà, così come la società e le città, sia un processo in continua evoluzione. Esistono dei processi creativi informali che hanno la capacità di leggere i meccanismi della realtà in trasformazione e ad interpretarli in nuove forme di espressione. Queste realtà, che nascono in una condizione di marginalità, spesso crescono fino ad attirare forme di mercato e vengono quindi istituzionalizzati – altrimenti tenderanno a scomparire. Si tratta di un processo evolutivo non diverso da quello che succede nell’evoluzione delle specie: si manifestano “anomalie genetiche”, differenze di potenziale che nascono e riescono a sopravvivere perché si dimostrano maggiormente adattabili in un determinato contesto rispetto ad altri, fino a diventare una specie dominante. Le città hanno bisogno di questa diversità, di essere cool ma anche di essere marginali. Queste due anime devono coesistere l’una con l’altra.
C’è il rischio che un contesto marginale possa venire inglobato in un processo globale snaturandosi. Allo stesso modo, però, può sfruttarlo a suo vantaggio all’interno del proprio processo di trasformazione. Mantova, ad esempio, era una città in difficoltà che aveva evidentemente bisogno di un’iniezione di capitali. Ha avuto la capacità di usare la sua condizione di Capitale Italiana della Cultura per attrarre investitori con cui avviare dei meccanismi di trasformazione fisica della città, affrontando il grande problema (non molto conosciuto) del vasto patrimonio immobiliare pubblico in stato di abbandono. Credo che nel caso di Mantova ci siano state delle conseguenze perlopiù positive, mentre non possiamo dire con certezza lo stesso nel caso di Matera, capitale Europea della Cultura 2019, dove questo processo sembra essere gestito in maniera ambigua, quasi snaturando l’identità della città.
In definitiva la differenza la fanno le singole persone, quotidianamente, attraverso le scelte che fanno. Alcune storie sono più di successo perché ci sono, a guidarle, persone che hanno la capacità e la fortuna di determinare delle differenze. Anche nei contesti marginali è possibile riconoscere pratiche innovative che fanno la differenza e, al contrario, pratiche spaziali o sociali che seguono retoriche ormai sterili.

Salvatore: Un altro fattore è che, cool o marginali, spesso si agisce all’interno di una nicchia – come può essere il mondo del social design – che rischia di avere ben pochi punti di contatto con il paese reale, per cui si rischia di essere incisivi ma solo per una parte molto settorializzata di individui. Al paese reale non importa granchè se tu sei cool nel mondo iper-ristretto del design speculativo!
Lorenza: Però esiste la questione dell’eredità che lasciamo, che è una responsabilità politica: scegliere di indirizzare o meno dei processi. Potremmo fare l’esempio della scena della musica elettronica a Belgrado – oggi una delle realtà più interessanti – che nasceva durante la guerra come fenomeno di auto-marginalizzazione di una comunità di ragazzi che reagivano, in quel modo, a un’emergenza locale e globale.
Salvatore: Infatti io credo che il valore di un processo stia nella capacità di generare valore aggiunto dall’intersezione tra campi d’azione differenti in modo da creare dei cortocircuiti. La rete dei centri sociali, ad esempio, è spesso autoreferenziale, e così lo sono quella del design o quella dell’arte contemporanea. Riuscire a creare collegamenti tra ambiti diversi è, per quanto mi riguarda, la sfida più importante. E per fare questo forse è necessario usare registri di linguaggi differenti.

Michele: Si ma il rischio di adattare il proprio linguaggio all’interlocutore è quello di ritrovarsi a modellare le azioni su un registro che non ci appartiene. Io credo che esista un valore sia nell’essere radicalmente antagonisti, sia nello stare definitivamente dentro le logiche della moda e del mercato, purché però non si rischi un mix goffo tra le due cose.

Valeria: Io Credo che sia fondamentale in primo luogo avere in mente quale sia la propria identità e, una volta realizzato questo, cercare di veicolare le proprie intenzioni al maggior numero di persone possibile. Senza troppo temere il fallimento, che in realtà è uno strumento fondamentale che permette la fluidità dei processi.

Marianna: Lancerei al pubblico l’idea di fondo rimasta, la dicotomia marginale/centrale ha preso il sopravvento. La questione è: la capacità trasformativa di una scena creativa è legata alla sua centralità di stare all’interno del mercato oppure no? Dobbiamo stare fuori dal mercato per avere un potere trasformativo?

Alessandro: Io dopo aver ascoltato questo scambio di pensieri, vorrei chiedervi: in che termini il contesto marginale rappresenta, di per sé, un’opportunità? Il patrimonio immobiliare abbandonato della città vecchia, ad esempio, è chiaramente una opportunità per la riqualificazione, mentre questo discorso non mi è chiaro quando viene applicato alla produzione culturale.
L’altra cosa interessante è che ci sono due discorsi sulla marginalità: da una parte la posizione di chi produce prodotti culturali, determinando cosa è egemone e cosa no (e in questo caso la marginalità è un punto di inizio di un processo di progressiva inclusione in progetti più grandi); dall’altra parte c’è il discorso sul territorio, cioè della responsabilità di fare cultura rispetto ad uno specifico territorio. Non dimenticatevi che dovete essere responsabili di questo luogo e di questa popolazione perché ci sta permettendo di stare qui, le nostre azioni hanno degli effetti.

Leonardo: A me viene in mente un caso recente che riguarda Berlino, dove il sindaco ha proposto la nascita di un centro di produzione di techno e del clubbing nell’ex aeroporto Tegel. Ci sono state proteste da parte degli attori culturali storici perché significherebbe istituzionalizzare la scena marginale del clubbing in una sorta di “Disneyland” della techno, mettendo fine alla spontaneità del processo iniziale. Se viene meno l’incertezza, la città può essere ancora generativa?

Peppe: Il tema dei flussi di capitale è stato affrontato diverse volte con Marianna nel senso che non sempre gli spazi di indecisione sono propri delle città che non hanno flussi di capitale. Taranto ne è un esempio: di processi indecisi ce ne sono diversi, difficilmente si prende una decisione sulla città – anche a livello statale – eppure i flussi di capitale che attraversano la città sono enormi, dal momento che ospita il polo siderurgico più grande d’Italia (oltre alla Marina Militare, l’Arsenale, e l’Eni). Taranto non è la Berlino di 30-40 anni fa, a noi piace pensarlo ma non può esserlo, proprio per via di flussi di capitale che la attraversano su scala sovra-nazionale.
Esistono invece flussi di capitali più piccoli, dovuti alle singole persone che, attraverso la loro rete di relazioni, fanno sì che il tessuto urbano diventi sempre più permeabile alle occasioni di scambio. Probabilmente questa è una risposta intermedia tra avere una responsabilità sociale, e avere una minima ricaduta economica, in piccola scala, sul territorio locale.
Non è una risposta completa ma è un’assunzione di responsabilità che facciamo quando decidiamo di agire su questo territorio. Quello che proponiamo è un tentativo di interazione per sperimentare una coesistenza senza conflitto tra diverse realtà umane.
Il tema del conflitto è centrale rispetto ai processi di gentrificazione ed è una questione su cui designer, architetti e produttori culturali devono confrontarsi. Possiamo essere radicali quanto vogliamo, però la nostra sfida professionale sta nella capacità di attenuare il conflitto con le persone che vivono gli spazi. Il conflitto può attenuarsi o esacerbarsi alle volte, l’importante è mantenere una apertura per cercare altre forme di dialogo che permettano al territorio di essere sempre più permeabile.

Salvatore: Io volevo aggiungere un altra parola a cui tengo molto, che è “ambiguità”, a cui dò una accezione positiva. Farò due esempi di processi che intendo ambigui. Un primo processo ambiguo è quello di Theaster Gates, un artista che ha molto successo nel mondo dell’arte contemporanea e lavora con le più grandi élite del capitale finanziario. Lui ha creato un processo che chiama “Economia Circolare”, riutilizzando i capitali che alimentano l’arte contemporanea per processi di riqualificazione urbana nel suo quartiere di Chicago Sud (uno dei più poveri della città). Così facendo riesce a mettere insieme la coolness dell’arte con le periferie ed i contesti più marginali delle grandi città americane. Un processo simile è accaduto a Macao, un centro di produzione culturale di Milano: durante la Fashion Week del 2016 per la prima volta è stato affittato uno spazio occupato per una sfilata, e i soldi ricavati sono stati devoluti alla resistenza antifascista turca in Rojava. Quindi la Settimana della Moda di Milano ha indirettamente finanziato la resistenza al governo fascista di Erdogan. Con questa operazione Macao ha messo insieme due mondi completamente diversi. Questi sono due casi per me di ambiguità esemplare, ma credo che anche le Manifatture Knos possano essere definite, per certi aspetti, un processo ambiguo.

Michele: Secondo me c’è una distinzione minima, ma essenziale, da fare quando si parla di mercato e capitale. Il capitale e i suoi flussi sono una massa, un accumulo di denaro con un potere trasformativo molto forte. Qui la Marina e l’industria hanno un forte potere di controllo sulle cose, ma allo stesso tempo dove non controllano creano indecisione. Il mercato invece è un meccanismo continuo di scambio denaro – beni/servizi che si alimenta quasi spontaneamente. Ad esempio, nel pagare gli ospiti di questo talk, riconoscete il lavoro che hanno fatto con le rispettive comunità locali ,quindi state sostenendo quel lavoro facendo uno scambio.
L’intervento che fate come attori culturali in questa città sta nel fatto che, organizzando queste tre giornate, avrete speso dei soldi, abbiamo scambiato con la comunità e avete generato un mercato che in qualche modo si è rappresentato come responsabile di fronte alla comunità. Questa è una questione essenziale. Secondo me si è più trasformativi se ci si pone nell’ottica del non dover trasformare.

Lorenza: Rispetto alla domanda sull’impatto della trasformazione, cioè dalla differenza tra il parlare a tanta gente o a una comunità ristretta, mi ricollegherei alla questione della responsabilità che abbiamo verso la comunità locale. Dipende da quale punto di vista vuoi osservare la cosa, ogni scelta genera differenti conseguenze. Mi viene in mente Lucius Burkhardt, un sociologo svizzero che negli anni ‘60 ha inventato la promenadologia (strollology in inglese), la scienza del camminare nel paesaggio. Lui diceva che il primo atto di trasformazione del paesaggio è la scelta del punto di vista. Quando era docente all ETH di Zurigo portava gli studenti a camminare per la città con una cornice di legno in mano: l’esperimento stava nell’utilizzare la cornice per scegliere cosa guardare, quindi un punto di vista, decidendo cosa mettere a fuoco e cosa tenere fuori. Così facendo dimostrava che la semplice scelta di un punto di vista è un primo momento di trasformazione.
Organizzare un evento sui tetti di Taranto presuppone già una scelta che ha un impatto su un numero di persone limitato, ma poi probabilmente io tornerò in Triennale e racconterò di quanto è figo fare un festival sui tetti. Quindi se la guardi sul lungo termine anche parlare a poche persone genera trasformazione. Taranto e il suo centro storico presuppongono un processo molto lento ma tutto ciò può trasformare l’isola sul lungo termine. Ovviamente in un’ottica di guadagno è più utile parlare a più persone in modo immediato. Ma la scelta determina la tua identità politica, ed è un atto di trasformazione.

Chiara: La dicotomia centro-margine, come tutte le categorie, è un atto di finzione, ma in realtà ci sta facendo fare dei passi in avanti rispetto ad alcuni nodi del dibattito. Allora proviamo a creare un corto-circuito, mettendola in relazione con un gioco di scale geografiche più complicato. I Cantieri Culturali alla Zisa, ad esempio, sono un centro culturale all’interno di una città (Palermo) marginale rispetto alla scena economico-politica italiana. Se però ragiono sulla scala urbana locale, l’esperienza dei Cantieri diventa centrale. Quello che non ha funzionato nell’esperienza dei Cantieri – il rischio tradotto nella incapacità di generare processi trasformativi sul lungo termine – è stata la relazione con il quartiere. I Cantieri Culturali sono rimasti uno spazio chiuso verso le persone che abitano l’area. Anche se sono state attivate delle pratiche artistiche e culturali molto attrattive, la relazione con gli abitanti è fallita.
Un’altra vicenda interessante per ragionare su questa dicotomia è quella in corso a Danisinni, un quartiere appena fuori dal centro storico e uno dei più vulnerabili e marginalizzati di Palermo dal punto di vista socio-economico. Fino a due anni l’unico presidio sociale era garantito da una chiesetta nella piazza. Su Danisinni ad un certo punto si sono accesi i riflettori, in quanto terra di passaggio del percorso delle architetture Arabo-Normanne promosso dall’Unesco e il Comune aveva tutti gli interessi a ripulire la zona. Tra le esperienze attive nella rigenerazione del quartiere ce ne sono due differenti tra loro. Una è un progetto dell’Accademia delle Belle Arti chiamato “Rambla Papireto” in cui si produce cultura popolare tramite la street art e il circo sociale. Si tratta di un progetto ancora aperto, che ha avuto una buona presa sulla comunità ma è tutt’altro che cool. Rispetto ai linguaggi della cultura contemporanea è certamente marginale, ma centrale per la comunità, che si dimostra molto coinvolta. Il secondo è X-Danisinni, un progetto sviluppato in (sole) 3 settimane con 8 artisti all’interno della cornice di Manifesta 12. Un progetto certamente in linea con le tendenze dell’arte contemporanea ma quasi irrilevante rispetto alle interazioni con una comunità locale.

Lorenza: Tu richiami un tema che è centrale, cioè il ruolo educativo che ognuno di noi ha, in quanto artista, creativo, o ricercatore. Ognuno di noi ha un responsabilità nell’educare la comunità che ha intorno in un processo di crescita, piuttosto che accogliere e basta quello che viene dalla comunità stessa. A volte nei processi di partecipazione e relazione con la comunità emergono delle cose che non sempre hanno valore dal punto di vista estetico. Il tema dell’educazione alla bellezza secondo me ha un valore politico, ed è anche giusto chiedersi se (e in quale misura) questo comporta imporre un processo top-down.

Marianna: A me è piaciuto molto quello che ha detto Alessandro ieri sull’importanza di chiedersi quale sia il proprio mandato come attori sociali all’interno di una comunità, che mi sembra in contraddizione con quello che ha detto Michele prima. A questo punto vorrei aggiungere un ulteriore livello di contraddizione: abbiamo un mandato o possiamo decidere di non fare nulla?

Michele: Riguardo alla questione del mandato, l’aspetto della pedagogico ha un’implicazione politica molto importante. Come fai la pedagogia? Ti poni dall’alto, in una logica top-down, oppure ti poni in un ruolo di facilitazione e coinvolgimento? Con Gilles Clément (agli Incontri del Terzo Luogo) abbiamo rotto questa dicotomia quando abbiamo fatto un’operazione artistica – da lui sempre definita però pedagogica – in una zona alla periferia di Lecce. Dopo anni di progettazione urbana partecipata, ma fallimentare, abbiamo iniziato a smettere di sentirci come qualcuno che dovrebbe avere un mandato, abbiamo smesso di “sentirci” avanguardia, ci siamo sentiti cittadini prima ancora che professionisti e creativi. Abbiamo cambiato il nostro modo di agire, non chiedendo più agli abitanti della zona cosa fare ma intervenendo direttamente su un campo di rovi abbandonato in cui abbiamo aperto dei varchi per l’accesso. Adesso gli abitanti, dopo un breve iniziale conflitto, hanno capito cosa stavamo facendo e vivono quel posto come un parco, prendendosene cura e facendosi carico della manutenzione dei percorsi. Ad oggi, è uno dei parchi più belli della città. Lì è stata fatta un’operazione pedagogica non imposta.

Nasrin: Secondo me sbagliamo a trattare il termine “partecipativo” perché siamo figli di una cultura che ha svuotato di senso il termine “partecipazione”, usandolo per anni per deresponsabilizzare qualunque tipo di scelta. La partecipazione, idealmente, dovrebbe essere conflitto, spiegare alle persone quali saranno le trasformazioni urbane a cui andranno incontro e su cui devono prendere delle decisioni come fossero professionisti.

Valeria: Sulla base della mia esperienza la partecipazione è una presa di consapevolezza da parte della comunità, del processo di riappropriazione dello spazio pubblico, e non mi sembra una cosa da poco, anzi è fondamentale, per me. Con Labuat, ormai dieci anni fa, abbiamo lavorato qui a Taranto a un progetto molto intenso, realizzato in dieci giorni, di cui non è rimasto niente se non una spianata di cemento. In quell’occasione abbiamo dato un nome ad un vuoto urbano che non aveva identità di luogo.

Nasrin: Ma infatti è un processo che passa dall’identità, al di là della scelta sul tipo di manufatto da collocare in un luogo. In alcuni quartieri di Roma a volte è impossibile perfino riconoscere una comunità formale a cui rivolgersi, perché i tessuti sociali sono molto frammentati.

Valeria: Secondo me non è tanto importante farsi portavoce di specifiche necessità, quanto generare un sentimento di ri-appropriazione dello spazio pubblico.

Peppe: Nel 2008, quando Valeria ha creato l’associazione Labuat, ero a Venezia a studiare e mi sono avvicinato alle pratiche partecipative vedendo quello che facevano lei e Michele Loiacono in Città Vecchia. Loro non hanno chiesto agli abitanti di cosa avessero bisogno, ma hanno cercato di leggere e interpretare l’uso degli spazi di risulta. Hanno dato un nome ad uno spazio anonimo, derivato da una demolizione selettiva avvenuta vent’anni prima (infatti in quella piazzetta si riesce leggere ancora oggi la partizione delle particelle catastali). È rimasto uno spazio indeciso, i bambini ci giocavano a calcio e continuano a farlo ancora, giocano sul cemento invece che sulle pietre, non è il massimo ma almeno rispetto alle economie di progetto è funzionale.

Valeria: Di quello che era stato creato in quei 10 giorni super-intensi, non è rimasto niente, solo il nome di quello spazio che ha contribuito alla toponomastica della città vecchia..

Peppe: …E ha contribuito alla trasformazione dell’immaginario di quel luogo.

Michele: Il lavoro che avete fatto in quella piazza è stato esemplare e anche molto complesso. È stata un’azione, tra le altre cose, pedagogica, perché gli abitanti sono stati messi nella condizione di sentirsi “potenziali trasformatori”, senza aspettare che arrivi l’istituzione a farlo per loro. Questo è stato rivoluzionario, come è stato rivoluzionario dare un nome a quello spazio: nel momento in cui lo si riconosce come una piazza, lo si usa come una piazza.

Gabriele: Secondo me è importante riflettere sul fatto che quello che si fa ha sempre, o in una parte, delle conseguenze imprevedibili. Prima ancora di aver creato uno spazio pubblico, avete creato un flusso di entusiasmo. Ricordo che eravamo studenti e, vedendo i video-racconti di quelle operazioni, eravamo profondamente colpiti (“guarda che figata!” ci dicevamo).

Peppe: C’è stata un’apertura di un immaginario nuovo, di possibilità.

Gabriele: Forse è stato più importante l’entusiasmo generato e messo in rete, che le conseguenze reali nello spazio stesso.

Valeria: Si tratta sempre del solito tema dell’importanza del fallimento…

Lorenza: Io vorrei approfittare della presenza dei ragazzi di Where Is Wave? per parare del loro lavoro, perché trovo estremamente interessante questa idea del suono come utopia del progresso urbano.

Gaspare (Where Is Wave?): Sull’utopia del suono urbano siamo protagonisti in maniera diversa, abbiamo storie e profili differenti. Ci conosciamo da dieci anni e da dieci anni organizziamo una serie di eventi e rassegne negli ipogei, in modo totalmente underground. Io posso dire di essere stato sia marginale che cool, a seconda dei periodi. Negli ultimi mesi stiamo lavorando a questo nuovo progetto per riprendere la ricerca fatta (non solo da me) negli anni passati, per provare ad entrare il più possibile nelle dinamiche della città, proponendo quello che a noi piace. Da tre mesi siamo attivi come collettivo sul territorio, con l’obiettivo di mantenere viva una particolare concezione della musica a Taranto, che ha una storia che arriva indietro agli anni ‘80.

Peppe: A Linz la scena elettronica è nata contemporaneamente al polo industriale. A Taranto la nostra memoria arriva agli anni ‘80 ma probabilmente anche prima di questo periodo, quindi in concomitanza con la nascita della fabbrica, c’era qualcuno che faceva della roba sperimentale come i WIW continuano a fare oggi. Quando ci siamo trovati ad agosto con loro, durante il primo festival di musica elettronica che si è tenuto in zona, ci siamo detti che è incredibile come, nonostante alti e bassi, la sperimentazione musicale della città di Taranto rimanga ancora ad un livello molto alto. L’easy-listening non ci appartiene come modalità di ascolto!

Gaspare (Where Is Wave?): In effetti questo ce l’hanno confermato persone che hanno vissuto il periodo dei centri sociali in Città Vecchia negli anni ‘80. Ci si chiede spesso come mai rimanga questa cosa attiva nel tempo e perché. Secondo me a Taranto è sempre mancato un luogo come Knos, Macao o il Teatro Filangieri di Napoli, dove ci si sarebbe potuti ritrovare e dare valore e struttura a quello che è stato fatto negli anni. Molte esperienze sono andate perse, e ripartire ogni volta da zero non è facile. In dieci anni mi è capitato tre volte. Continuare a sperimentare per noi significa anche mantenere delle connessioni col passato. Taranto ha avuto un picco negli anni delle controtendenze. Adesso il panorama musicale è cambiato, per non parlare di questi recenti grossi eventi che ti fanno sentire come se fossi a Milano, ma è solo compassione per una città dilaniata.

Peppe: Invece negli anni ‘80 la scena musicale alternativa era centrale.

Alessio (Where Is Wave?): Avrebbero potuto suonare qui i Kraftwerk e sarebbe stato normale, ora invece rappresenta il grande evento per le masse (si riferisce al maxi-concerto dei Kraftwerk organizzato a Taranto dalla Regione Puglia nel giugno 2018).

Lorenza: Che rapporto ha il suono con lo spazio dove suonate?

Alessio (Where Is Wave?): Il rapporto con il suono fondamentalmente parte dal modo in cui viviamo gli spazi. Questa è la realtà che viviamo, con tutti i suoi fattori sociali. Il valore del territorio è quello di creare relazioni: ci siamo conosciuti attraverso reti di relazioni che si sono intrecciate negli anni. Non siamo stretti solo attorno alla scena elettronica, è bello incontrarsi anche per mescolare i generi. È un flusso creativo libero.

Peppe: Per me i Where Is Wave? in questo momento, come altri della scena punk-hardcore hanno fatto in passato, sintetizzano il suono della città, non nel campionamento del suono reale, ma nella creazione di immaginario. Dal mio punto di vista loro fanno esattamente questo: sintetizzano questa dimensione di dialogo, di speculazione, confronto e collaborazione. Quando abbiamo detto a Gaspare il titolo del nostro evento, mi ha svelato che la recensione del suo primo singolo, un paio di anni fa, diceva: “questo è il suono del 2049”.