EP01 Taranto 2049. Is this fading-city on the Ionian Sea cooler than Blade Runner?
Il disastro è in corso o è già avvenuto?
Alessandro Coppola, Marco Petroni
A cura di: Post Disaster
Conversazione,
07.09.2018
40.4749891, 17.2299615
Gabriele: Leggendo la cronaca di Alessandro su Detroit e le città della rust-belt americana, il pensiero va subito a Taranto, al punto che il testo di “Apocalypse Town” potrebbe essere preso come riferimento per immaginare possibili scenari di decrescita post-industriale per questa città. Ci sono evidenti parallelismi tra le vicende di Taranto e i racconti del tuo libro: uno è il sacrificio dei servizi culturali come prima conseguenza della contrazione, l’altro è la concentrazione dello “scarto” su di un territorio (come le infrastrutture pesanti e l’industria) fino al punto del collasso. Quello che invece differenzia evidentemente le due realtà è che, mentre in America si parla di città industriali inserite in un regime di libero mercato – con uno sviluppo immobiliare conseguente – qui invece l’evoluzione del territorio, dall’industrializzazione all’urbanistica, è stata pianificata da un piano corale e sovraimposto a priori.
C’è poi il discorso della rinascita e del riscatto dei luoghi dopo la contrazione, che Alessandro descrive come possibili solo in relazione al rischio di una svalutazione. È interessante come entrambi, Alessandro Coppola e Marco Petroni, vi siate interessati a queste dinamiche ma in due maniere differenti: il primo raccontando le politiche di gestione del post-contrazione, il secondo facendo un resoconto dei progetti di reazione più spontanea che dal basso sfruttano le risorse che la crisi ha inconsapevolmente generato, come l’abbondanza di spazio urbano in cui sperimentare e la disponibilità di materiali di riuso.
Alessandro: Io ho avuto modo di passare del tempo qui a Giugno. Conoscevo Taranto per vie traverse grazie a persone che mi hanno raccontato la storia del territorio, ma non ho mai effettivamente avuto il piacere di confrontarmi direttamente con intelligenze locali.
Vorrei partire dalla parola disastro, che è una parola per me importante: trascorro molto tempo a L’Aquila, una città post-disastro per eccellenza. Vorrei proporre una sorta di triangolazione tra Aquila, la rust-belt americana e Taranto rispetto al tema dei disastri. I disastri sono dei fatti territoriali totali. La lente del disastro ci permette di guardare il prisma di una società locale in tutto quello che non riesce a svelarci in una situazione normale. A L’Aquila, ad esempio, il terremoto è stato una grande opportunità (non sfruttata) di critica ad una spazialità urbana dispersa che storicamente la caratterizzava. Se guardiamo alle città americane, invece, potremmo chiederci: “il vero disastro qual è? È la fine della company town o l’inizio?” Andando in giro per l’America si incontra gente che sostiene che il vero problema sia stato la dipendenza dalla produzione industriale, come in fondo qui a Taranto. Anche qui, ad esempio, si può guardare all’industria come un fatto territoriale totale: la siderurgia è stata un evento che ha determinato una serie di conseguenze talmente imponenti, e la sua eventuale dismissione giocherebbe il ruolo di un disastro.
Venendo qui rileggevo le parole di Alessandro Leogrande. Una cosa molto lucida che dice nel suo libro è: “non dobbiamo leggere la fabbrica, la città vecchia e quella nuova come cose diverse”. Una cosa che vediamo spesso nei disastri, così come nei processi di sviluppo accelerato, è che producono dei tipi territoriali molto evidenti. Taranto è una città con cui un urbanista va a nozze: abbiamo un’immagine molto distintiva che è quella della città vecchia, un modello urbano unico che versa in una crisi senza paragoni; poi c’è il grande insediamento industriale, straordinario nella sua unicità; e poi ovviamente la città nuova, che ha disatteso le aspettative di cui era incaricata. Queste immagini frammentate potrebbero far pensare che si parla di cose diverse, mentre la straordinarietà del territorio è proprio il fatto che sono fortemente interdipendenti. Se dovessi pensare a come teorizzare la questione sociale – anche nella città vecchia – sottolinerei questa profonda interdipendenza. Leogrande infatti racconta di come un particolare stile di vita legato all’organizzazione sociale della città vecchia sia scomparso in seguito all’urbanizzazione.
Riguardo a quello che dicevi sulla differenza privato-pubblico, risponderei che per un certo tipo di capitalismo la pianificazione dello spazio non è molto differente da quella di natura istituzionale: una città industriale degli stati uniti non era molto diversa da una città industriale sovietica, si tratta dello stesso dispositivo organizzativo. Se portassimo un abitante della Rustbelt a Taranto, si identificherebbe in una serie di storie locali: perfino i programmi culturali finanziati dall’azienda (il museo, l’orchestra operaia…) sono cose che fanno parte dell’armamentario di un vecchio capitalismo che non esiste più.
Una cosa secondo me interessante, che dovrebbe essere oggetto di riflessione, è il ruolo dello Stato a Taranto. L’Italia come “Stato debole”, che non è in grado di fare grandi pianificazioni o programmi, è solitamente un mantra degli urbanisti italiani. Taranto invece è un luogo che dimostra, purtroppo tragicamente, che c’è stata una fase in cui lo Stato italiano faceva cose molto imponenti, con impatti territoriali invasivi. Il ruolo dello Stato, però, non è finito lì: uno degli aspetti interessanti di Taranto è una sorta di “accanimento terapeutico” che si manifesta nel moltiplicarsi di piani e progetti sovra-imposti. Ho trovato, ad esempio, che il concorso di idee sulla città vecchia (si riferisce al concorso di idee “#open Taranto” promosso da Invitalia) sia una della cose più surreali mai viste: l’idea di un grande piano di iniziativa pubblica che si apre a un concorso di idee che, però, hanno a che fare solo con lo spazio, senza porsi questioni fondamentali sulla complessità della società locale. Senza chiedersi di fatto cosa se ne farà della vita delle persone e cosa le persone che abitano qui possano fare della loro vita. Taranto, semplificando, è un grande progetto di Stato in cui non si capisce qual è il ruolo della società locale, né lo si capiva ai tempi del grande polo siderurgico, quando era stata coinvolta solo una piccola élite della società che ha promosso la trasformazione. Oggi, ancora, si assiste ad una certa enfasi progettuale con progetti improntati sulla diversificazione culturale, che però hanno ancora le sembianze di piani di Stato e che solitamente hanno difficoltà nel depositare qualcosa sul territorio. Il mio invito, quindi, è quello di parlare non solo di pratiche sociali virtuose, ma anche del ruolo dello Stato.
Rispetto alla questione delle rinascite post-contrazione, invece, vorrei fare una precisazione: non si tratta di rinascite vere e proprie. Io nel libro racconto un contesto trasformativo in cui una serie di circostanze che hanno molto a che fare con il capitale spaziale a disposizione (rispetto alla popolazione rimasta), permette di mettere in campo delle forme di organizzazione sociale e di riuso dello spazio che sono differenti da quelle egemoni (che solitamente sono regolate dallo scambio Stato-mercato, che ora viene necessariamente a mancare). Parlare effettivamente di rinascita implicherebbe dire, ad esempio, che la povertà non è più al 40%; che l’indice di segregazione non è fra i più elevati d’America; che l’obesità non è ancora il 20% superiore alla media nazionale… Stiamo comunque parlando di contesti socialmente dolorosi, in cui sicuramente insistono una serie di pratiche sociali interessanti. Pratiche che, ho notato, si possono vedere anche qui in una certa misura. Il posto in cui siamo (ex-chiesetta degli armeni) ne è un esempio perfetto: un luogo come questo – di fatto un luogo pubblico auto-gestito in comunità – in un contesto diverso avrebbe avuto un sistema di utilizzo certamente diverso.
Gabriele: Rispetto alla questione che hai sollevato, del considerare le forze politiche ed economiche in campo nello sviluppare le pratiche sociali, mi aveva fatto riflettere un passaggio di un’intervista che Marco ha fatto al collettivo Akoaki, nella quale, alla domanda: “quale critica faresti a posteriori al vostro lavoro?” rispondono, parafrasando Claire Bishop, che le retoriche della produzione culturale (e artistica) dal basso hanno fatto spesso l’errore di non dialogare adeguatamente con il contesto politico-economico in cui sono inserite.
Marco: In realtà nel libro ci sono vari esempi che vanno in questa direzione, però prima di rispondere a questa domanda, credo sia il caso di fare un discorso più ampio, collegandoci a quanto detto da Alessandro. È Interessante non ragionare su una rinascita, concentrandosi invece su questa dimensione del “post disastro”. Per fare questo, oltre a toccare i temi trattati nel libro, vi racconterò di un progetto curatoriale che ho seguito per vari anni qui a Taranto, arenatosi poi per mancanza di finanziamenti.
Taranto incarna la dimensione del “post”, ogni volta che ci torno mi viene in mente il concetto espresso nel libro “Impero”, di Toni Negri e Michael Hardt, che ha cercato di fotografare la transizione dalla fabbrica alla moltitudine. In quel libro c’è un passaggio chiave che dice: “tutto è capitale”. A mio avviso questo non è vero, perchè territori periferici come Taranto rappresentano la possibilità di costruire un breccia in questo “Tutto”. Questa dimensione del Tutto ci impedisce la possibilità di individuare dei punti di rottura. Nel mio libro cerco di approfondire la questione del post attraverso il mondo del progetto (inteso come il design nel suo senso più ampio) che in questa fase di passaggio si ritrova necessariamente a fare i conti con il “reale”, dove per reale si intende il come affrontare una situazione andando oltre il flame thatcheriano “there is no alternatives”. Virno e Lazzarato la definiscono una “dimensione del possibile”. In Going Real individuo tre momenti di crisi e rottura del post: una è Detroit, che abbiamo già approfondito. Un altro punto fondamentale è la Jungle di Calais: la prima città di fondazione del XXI secolo, ormai smantellata, generata da una comunità che è riuscita ad auto-organizzarsi in assenza di economia. A Calais la prima necessità individuata è stata la costruzione di una scuola. Questo stimola una riflessione sul valore dei processi formativi nel post-disastro, attraverso la figura del “maestro-ignorante” che contribuisce alla diffusione di un sapere più inclusivo e orizzontale. A Calais si percepiva la necessità di un’organizzazione basata su un sistema di relazioni, e per soddisfare l’esigenza di cibo nascono degli orti urbani. Il tema del nomadismo non riguarda solo questi contesti estremi: anche Taranto subisce un drastico fenomeno di spopolamento. Quindi questa dimensione del Tutto va rielaborata secondo nuove chiavi di lettura.
Un terzo tema che affronto è la scarsa consapevolezza che abbiamo delle gabbie algoritmiche in cui siamo imprigionati. Pensiamo ai social media: piattaforme che tendono a sostituirsi ai governi definendo una serie di nuove regolamentazioni che sono sempre a loro vantaggio.
Il mondo del progetto, finora apparentemente estraneo a queste questioni, sta ritornando a fare presa sul reale attraverso dei cambi di paradigma nella percezione dello spazio pubblico. Qui entra in gioco il progetto curatoriale che avevo messo a punto su Taranto, la cui idea viene dalla lettura di un romanzo di Roberto Bolano, 2666, da cui prende il nome. Un romanzo fatto di storie che si incrociano nello spazio, che racconta un mondo post-industriale. Uno dei luoghi di ambientazione è il confine tra il Texas e il Messico: sul versante messicano insistono le fabbriche che producono oggetti per il mercato americano, un territorio in conflitto con il territorio che alimenta, poiché molti dipendenti dell’industria, in particolare donne, muoiono misteriosamente. Questo mi ha fatto pensare al grande polo siderurgico tarantino che, come un’astronave, atterra su un territorio agricolo sulla base di un piano prestabilito. Un piano diabolico, che utilizza la produzione di cultura come strumento per lavare le coscienze. Una cultura di alto livello, i cui episodi sono custoditi all’interno di un archivio, quello dell’Italsider, oggi pressochè inaccessibile poiché di proprietà privata in seguito alla privatizzazione dell’industria. La controversa produzione culturale dell’Italsider aveva arruolato alcune tra le più avanzate figure del panorama artistico: autori come Gillo Dorfles ed Eugenio Carmi. In quel clima nasce una figura importantissima per l’arte contemporanea in puglia: il critico Franco Sossi, che nel 1975, tramite una casa editrice legata al Circolo Italsider, produce riflessioni sul contemporaneo in Puglia. Il progetto 2666 prevede una ricostruzione di questa ricerca, attraverso una sorta di floating Agorà itinerante che distribuisce dati e materiale prodotti in quegli anni, facendo adottare agli abitanti di Taranto questo strumento di conoscenza.
Gabriele: In riferimento a quello che tu definisci come “mondo del progetto” mi viene in mente una riflessione: nel tuo libro fai riferimento al concetto di comunità dove per comunità intendi una scena creativa che interagisce con un contesto creando nuovo valore. Mi riferisco all’ambivalenza del concetto di comunità, che spesso è inteso invece come l’audience a cui si rivolge il progetto di social design, persone “non addette ai lavori” a cui si cerca di dare una serie di competenze che si crede possano servire ad emanciparsi.
Marco: Il termine “comunità creativa”, di per sè, non vuole dire nulla. Quello che conta è la percezione delle azioni che si compiono. Un esempio molto interessante è l’esperienza a Liverpool del collettivo Assemble, in cui viene rigenerata Granby Street con due strumenti: spostandosi là e costruendo un vero e proprio laboratorio. La cosa interessante è come questo progetto sia stato captato dal mondo dell’arte contemporanea, che lo ha premiato con il Turner Prize. Gli Assemble, in risposta alla definizione di “artista”, hanno preferito definirsi “idraulici”, persone che sistemano le connessioni tra gli attori di un luogo. E’ difficile dunque definire una comunità creativa, piuttosto esiste una comunità che scambia informazioni e conoscenze. Chiaramente questo deve avere a che fare con l’economia: nel caso di Assemble loro hanno generato anche un mercato legato a questo processo.
Peppe: Spesso qui a Taranto capita di avere confronti con i diversi attivisti della città ed emerge come spingano molto sul tema dell’auto-recupero. È perfino emersa la proposta di creare squadre di residenti che in autonomia possano ristrutturare immobili per poter gestire una base di fondo comunitario. Questo sarebbe molto simile a quello che è stato realizzato da Assemble a Liverpool con il Community Land Trust. La differenza è che in quel caso c’è stato un gruppo di persone che ha avuto l’intenzione di invitare gli altri residenti in questo processo, dimostrando una coscienza di comunità che qui invece è più frammentata. La riflessione di Leogrande su come il siderurgico abbia svuotato di senso l’isola della città vecchia è piuttosto centrale in questo contesto. Quali sono le azioni che, con il tempo adeguato e necessario, dobbiamo prefissarci per raggiungere traguardi nella scala temporale del post-disastro? Il disastro è in corso e è già avvenuto? Qual è il momento in cui scatta la necessità di una comunità mista?
Alessandro: Questa è una discussione piuttosto comune, e tra l’altro non so se il termine creativo sia qualificante in questo contesto. Credo sia necessario capire quale sia la priorità in questo momento: costruire una piccola e solida avanguardia con obiettivi chiari, o cercare un rapporto più organico e radicato con una società? Credo che questo sia il dilemma tipico di chiunque voglia fare un’azione sociale. Per me la questione fondamentale è avere ben chiaro qual è il mandato che uno si aspetta di avere, non tanto l’essere presenti e immediatamente accessibili. Questo è indispensabile per evitare di produrre inutile retorica. Qual è, quindi, il mandato di un’ipotetica comunità creativa a Taranto? O in particolare a Taranto Vecchia? La cosa interessante della parola mandato è che implica che ci sia stato dato, e quindi ci impone di confrontarci con la realtà per capire se abbiamo un fondamento esatto.
Riguardo al Community Land Trust, credo che quel successo sia dovuto a una delle cose straordinarie che permettono questi processi: l’immaginare, a partire dal basso, forme nuove di proprietà. In questa città il più clamoroso fallimento dello Stato è non aver saputo ridefinire, in 50 anni, qual è l’uso di un patrimonio urbano come questo centro storico. Probabilmente questo tema, quello dell’abitare questa area della città, potrebbe essere il mandato di una comunità creativa da qui ai prossimi anni. Si tratterebbe di un lavoro relazionale e di negoziazione, con il coinvolgimento di soggetti esterni, per fare di questo posto un luogo di sperimentazione.
Rossella: Io non approvo il termine “creativi”, e lo trovo perfino limitante. Non è detto che avere un background legato al progetto debba comportare un’attività di design. È piuttosto la capacità di essere ibridi che porta ad una capacità di adattamento per affrontare e risolvere tematiche con le risorse a disposizione. La cosa interessante di realtà come le Manifatture Knos è la possibilità di sperimentare soluzioni ogni volta diverse, permettendo una crescita collettiva.
Gabriella: Sono stata recentemente a Palermo per Manifesta, e mi ha stupito come le iniziative ufficiali dell’evento siano rimaste piuttosto scollate dalle realtà pre-esistenti, come nel caso di Pizzo Sella, in cui il progetto “ufficiale” di Manifesta non ha affatto comunicato con l’associazione Pizzo Sella Art Village, che lavora da anni su quegli edifici incompiuti. A questo proposito volevo chiedere a Rossella come è stata l’esperienza a Manifesta in cui eravate ospiti come Scuola del Terzo Luogo insieme al collettivo Coloco.
Rossella: In quanto artisti esterni coinvolti, e quindi non responsabili di tutto il sistema relazionale necessario al progetto, dobbiamo ammettere che lavorare per Manifesta è stata un’esperienza piuttosto fluida. C’era un’associazione locale molto radicata che si occupava delle relazioni con la popolazione e questo ci ha permesso di lavorare all’interno di una macchina ben organizzata.
Gabriele: Voi a Manifesta 12 (a Palermo) avete portato un modo di fare giardino, collettivo, nato interno alla performance Asfalto Mon Amour, messa in pratica con i Coloco alle Manifatture Knos.
La cosa interessante è stato il salto di scala dal contenitore sperimentale che sono le Knos a una situazione urbana estremamente reale come è il quartiere Zen a Palermo.
Rossella: Si, è stata una scelta sostenuta da Gilles sulla base delle possibilità offerte dal masterplan preliminare di OMA. Vista la situazione molto aperta e permeabile, i ragazzi di Coloco hanno poi pensato di aprire il progetto alla Scuola del Terzo Luogo.
Gabriele: Io credo che non sia un caso che, tra tutte le pratiche sperimentate alle Knos, quella di Asfalto Mon Amour abbia fatto breccia più di tutte tra le retoriche che si stanno imponendo su scala globale come, appunto, quelle seguite da Manifesta. Si tratta infatti di un’azione molto efficace perchè è sia politica che estetica. Mette in contrapposizione, in maniera molto diretta, simboli forti del dibattito contemporaneo sulla città e sull’ambiente, come l’asfalto e la natura. È una pratica che, dopo la prima sperimentazione alle Knos, è stata esportata diverse volte, anche in contesti istituzionalizzati.
Questo mi fa pensare a come l’importanza di codici comunicativi accattivanti (che fanno presa sui diversi livelli della società civile e sulle logiche del mercato) sia spesso trascurata nei processi di design sociale. Questo è uno dei temi di cui parleremo domani in un confronto sulla questione della sostenibilità del fare produzione culturale in contesti marginali.