EP01 Taranto 2049. Is this fading-city on the Ionian Sea cooler than Blade Runner?
Intro
Post Disaster Volley Team
La città è un prodotto umano complesso: è la dimostrazione per eccellenza di come il mondo che abbiamo modellato ci modella a sua volta, la prova dell’interdipendenza tra il designer e l’artefatto.
Salendo sui tetti possiamo provare a uscire dalla maglia e avere uno sguardo più lucido sulla condizione urbana contemporanea.
Post Disaster Rooftop sceglie di utilizzare il tetto come luogo indefinito e precario dove il design/progetto può essere discusso, trasmesso/tradotto e messo in pratica oltre gli standard dominanti.
Post Disaster Rooftops propone una performance collettiva di utilizzo improprio di luoghi urbani non convenzionali per l’insediamento di una piattaforma di discussione e apprendimento. L’obiettivo è decentralizzare il pensiero critico sul valore sociale del design (inteso nel suo senso più ampio) verso i luoghi al margine.
Il margine si manifesta in diverse forme e misure: è sociale, economico, politico, culturale e geografico. Allo stesso tempo, si mostra come un campo incolto per sviluppare pratiche nuove, informali e alternative. Un deserto potenzialmente fertile.
La condizione di marginalità produce un sistema complesso di meccanismi di sopravvivenza che rispondono alla logica della spontaneità, intesa come la risposta flessibile e immediata a circostanze contingenti. “Soluzioni” che dimostrano – meglio di qualsiasi intenzione progettuale – le potenzialità latenti dello spazio urbano, mettendo in scena forme di disobbedienza civile, e definizione di assetti sociali nuovi e autonomi.
In che modo il progetto può imparare dai meccanismi spontanei di sopravvivenza urbana?
Post Disaster Rooftops è il tentativo piratesco di risposta alla domanda: che ruolo può avere il progetto negli equilibri sociali, politici ed economici di contesti urbani marginali?
Noti i limiti, quali sono le potenzialità del margine? Può costituire un terreno fertile per formule alternative di sopravvivenza felice? In che misura queste potranno entrare in relazione con i sistemi dominanti, sia istituzionali che finanziari?
Il tetto è un punto di osservazione privilegiato della complessità urbana. Dai tetti delle città abbiamo a disposizione una visione lucida: uno sguardo sulla stratificazioni degli artefatti che l’uomo ha creato, in epoche diverse e in risposta ad esigenze diverse.
Il primo episodio si è svolto a Taranto tra il 7 e il 9 settembre 2018. Il titolo prende spunto da un articolo apparso nel febbraio 2018 sul New York Times che, nel descrivere l’incertezza pre-elezioni in Italia, utilizzava Taranto come esempio di un sistema politico-economico ormai depresso. Tra testimonianze e fotografie, l’articolo dipingeva la città come l’ambientazione ideale di un società distopica, definendola come una “fading city on the Ionian Sea”.
Di fatto, Taranto è una città simbolo dell’ideologia disillusa della crescita. Il punto di vista dai tetti di Taranto ci permette una ricognizione immediata del disastro: i palazzi crollati della città vecchia, i vuoti lasciati dalle attività dismesse, lo skyline degli impianti industriali, l’area urbana che sfuma verso il mare in un sobborgo senza fine.
Taranto è una città di produzione, che ospita la più grande industria siderurgica d’Europa. Produce e raffina materiale grezzo su scala globale ma ha perso il contatto con la scala locale. Questa forte identità produttiva genera uno sviluppo controverso e iper-settorializzato, monopolizzando di fatto il mercato del lavoro.
Taranto è una città con tre diverse identità: Taranto Città della Magna Grecia, Taranto Città dell’Acciaio e Taranto Città del Disastro Ambientale. Di questi aspetti si parla spesso in sedi separate, come se fossero antitetici, eppure coesistono.
Taranto è una città sospesa nel tempo. Un passato pre-industriale (il cui ricordo è ancora vivo) galvanizzante, l’entusiasmo del boom e le promesse di crescita; il presente industriale prima rabbioso poi depresso, a tratti rassegnato; un futuro post-industriale incerto e nebuloso.
Taranto è una città che assiste alla contrapposizione di 2 principali sistemi socio-economici: quello formale e quello informale. La città formale – legata all’industria – è un sistema binario di contrapposizioni produzione/consumo e lavoro/tempo libero. La città informale, invece, si genera per sottrazione e produce meccanismi di sopravvivenza. Taranto vive un doppio tempo, il tempo della produzione fordista e il tempo dilatato “non articolato” della scena informale.
Taranto è una città-progetto, pianificata top-down per articolarsi in un’infrastruttura complessa e iper-capillare: 2 mari, reti stradali e ferroviarie, scali merci, porti, quartieri satellite. Come può questo hardware latente diventare la struttura di supporto per trasformazioni future e transdisciplinari?
IL DISASTRO È IN CORSO O È GIÀ AVVENUTO?
A partire dagli scioperi del 2012, il destino dell’industria a Taranto è una continua e incerta trattativa tra Stato e opinione pubblica. Nel frattempo la città fatica a prepararsi ad un futuro post-industriale.
Guardando la condizione della città oggi, viene naturale un parallelismo con le company town nate intorno all’industria (e al loro percorso di crescita – contrazione – rinascita). Quali sono le analogie (e differenze) rispetto ai casi di crisi post-industriale su scala globale? Cosa hanno in comune una città di fondazione greca e le company town della Rusty Belt americana? Fino a che punto queste possono costituire una fonte utile di esperienze? Come immaginare il futuro della città tra “decrescita intelligente”, “contrazione” e modelli di “rinascita dal basso”?
Nelle città industriali la contrapposizione città/natura è drasticamente enfatizzata: Taranto, a questo proposito, rappresenta un caso estremo, contesa come è fra città antica, associata alle risorse naturali e città contemporanea, associata all’artificio. La presenza dell’industria (o l’ipotesi di una sua dismissione) ha una ricaduta drastica sia sulla condizione ambientale della città che su quella economica. Questo conflitto, che impone prese di posizione politiche, è una dimostrazione piuttosto evidente della condizione di interlacciamento che caratterizza la complessità del mondo contemporaneo.
Possiamo immaginare il futuro dopo il disastro, in una condizione in cui coesistono – in equilibrio precario – implicazioni politiche, economiche, sociali e ambientali? Come può la produzione culturale ri-creare una connessione tra l’antitesi binaria urbano vs naturale?
DECENTRALIZZARE / DECOLONIZZARE
Mentre la produzione di conoscenza e pensiero critico è concentrata in specifiche aree nord-europee, la produzione pesante e lo scarto sovraccaricano territori marginali. È possibile immaginare il dibattito e l’apprendimento come strumenti di decentralizzazione – bottom up e autosostenibile – del dibattito culturale verso i centri marginali dell’area mediterranea?
Negli anni dell’industria di Stato, seguendo altre esperienze nazionali, l’Italsider ha sostenuto economicamente lo sviluppo di una cultura contemporanea nella città di Taranto. Oggi i flussi globali che attraversano la città (ILVA, ENI, Marina Militare…), la rendono strategica per la produzione industriale, lasciando a margine la produzione culturale. Nella realtà contemporanea (e occidentale) i creativi – maker, artisti, designers, practitioners, attivisti sociali – costituiscono un potenziale di energia alternativo al sistema dominante, capace di generare – spesso non intenzionalmente – trasformazioni urbane e flussi di tendenze. In quanto scena, i creativi performano: danno vita a nuovi modelli di innovazione, codici comportamentali ed economie alternative. Nei contesti marginali, in un clima di generale assenza di welfare e committenza, questa condizione è enfatizzata: la scena creativa è totalmente informale, paradossalmente più vicina alle logiche della scena criminale: entrambe innovano, nel senso che generano un sistema di sostenibilità alternativo.
È possibile che questa condizione costituisca una posizione di vantaggio, di libertà di movimento e possibilità di evasione dalle logiche dominanti?
SPAZI AGONISTICI
Il tetto è un luogo di incontro paradigmatico per riflettere sulle potenzialità d’uso alternativo degli spazi urbani, sottoposti a norme di utilizzo e codici comportamentali che ne limitano il potenziale relazionale.
In uno scenario globale in cui gli spazi pubblici (le piazze? le strade?) sono sempre più condizionati da meccanismi di egemonia, i tetti offrono uno slittamento di paradigma ed una potenziale autonomia rispetto ai sistemi di controllo. I tetti sono spazi di indecisione, ambigui e indefiniti rispetto alla dicotomia pubblico/privato – potenziali soglie per il conflitto e il confronto politico ed estranei alla determinatezza consolatoria del limite dentro-fuori. Il progetto (disegno) dello spazio pubblico asseconda una categoria di individuo e inevitabilmente ne penalizza altre. Come è possibile immaginare spazi di pluralità, privi di qualsiasi forma di egemonia (sia essa politica, economica o sociale)? In che modo le pratiche culturali e artistiche possono contribuire effettivamente a sfidare le egemonie negli spazi urbani?
Immaginiamo la produzione culturale e l’uso degli spazi urbani come scenari di equilibrio precario, animati da incontri e relazioni che hanno un ampio margine di instabilità. Cosa significa concepire spazi urbani che possano trasgredire (o sfidare) le logiche di controllo della città contemporanea? Qual è il valore della precarietà e della transitorietà nelle pratiche di attivismo urbano?
DIREZIONE ARTISTICA
Post Disaster (Peppe Frisino, Gabriele Leo, Grazia Mappa, Gabriella Mastrangelo)
SET DESIGN
Post Disaster (Peppe Frisino, Gabriele Leo, Grazia Mappa, Gabriella Mastrangelo)