EP01 Taranto 2049. Is this fading-city on the Ionian Sea cooler than Blade Runner?
Spazi Agonistici
Salvatore Peluso, Antonio Ottomanelli, Azzurra Muzzonigro, Orizzontale, deltastudio
Conversazione,
09.09.2018
40.475895, 17.2307038
Salvatore: L’oggetto di questa riflessione collettiva saranno gli “spazi agonistici” ovvero i luoghi in cui il conflitto e la diversità generano cultura. Io sono piuttosto scettico sulle pratiche dichiaratamente finalizzate alla produzione culturale, mentre sono interessato ai luoghi in cui non si mira solo a produrre cultura ma si cerca di generare socialità, facendo politica. La riflessione sullo spazio urbano fatta con con gli organizzatori nasce dai tetti, luoghi a margine in cui loro si sono ritrovati a scambiare pensieri e riflessioni. Luoghi non pubblici dove si sono sentiti veramente liberi di pensare e di agire. Il tetto è un punto di vista importante per riflettere sulla città, guardandola dall’alto pur non perdendo il contatto visivo con la strada. Permette di osservare lo spazio urbano con uno sguardo obliquo (prendendo in prestito un concetto dal libro “Costruire futuri” di Azzurra Muzzonigro e Leonardo Caffo), che sfugge sia alle retoriche verticali che a quelle orizzontali.
Come leit-motiv di questo incontro propongo una definizione dello spazio urbano elaborata dal sociologo culturale Pascal Gielen, che fa una distinzione netta tra spazio pubblico e spazio civile: “Lo spazio pubblico è uno spazio per il libero scambio di pensieri, opinioni, idee e persone. Il dominio civile garantisce la struttura per l’organizzazione di questi pensieri, opinioni. Lo spazio pubblico si fonda sulla libertà di parole, mentre nel dominio civile l’azione è protagonista. Lo spazio civile spesso richiede azioni collettive, iniziative e organizzazioni. Le persone devono fare uno sforzo, organizzare qualcosa o semplicemente fare qualcosa per creare uno spazio civile.”
Per Gielen, quindi, le piazze delle nostre città sono spazi pubblici, mentre gli spazi civili sono dei luoghi che richiedono uno sforzo di interazione da parte delle persone che li abitano, come nel caso degli orti urbani o dei centri sociali.
A questo punto passerei la parola agli ospiti. Innanzitutto chiederei ad Antonio di parlare del suo concetto di educazione allo sguardo e di rivoluzione dello sguardo perché nella sua critica allo spazio pubblico, attraverso la fotografia, ricerca quei segni che rivelano le tensioni dello spazio pubblico. Questa indagine si estende anche alla curatela: nella sua ultima mostra ad Assisi lo scorso luglio, ad esempio, Antonio ha messo le sue fotografie in dialogo con le opere di Luigi Ghirri e Gordon Matta-Clark, affiancando la violenza del segno di Gordon Matta-Clark con i paesaggi ordinari di Ghirri (nello specifico nella sua opera de l’Atlante).
Antonio: Forse l’esempio della mostra di Assisi è un buon punto di inizio per ritornare sulla differenza tra spazio pubblico e spazio civile. A partire dalla definizione che dà Jacques Rancière di spazio pubblico, la divisione tra spazio pubblico e spazio civile è la distinzione tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile. Lo spazio pubblico è un luogo di libero pensiero, mentre nello spazio civile questo libero pensiero si organizza, diventa progetto e quindi trasformazione e rivoluzione. Il libero pensiero si fa visibile nella cosa pubblica. Rancière immagina lo spazio pubblico come un luogo di visibilità e partecipazione ma, allo stesso tempo, di divisione e partizione, in una misura che è ogni volta diversa in relazione alla condizione sociale a cui si appartiene. Ognuno, quindi, partecipa alla cosa pubblica in misura diversa: potremmo dire che ogni individuo è più o meno visibile o invisibile nello spazio pubblico. Uno dei principali fattori che ci rende invisibili è il lavoro, inteso come una forma di controllo e allo stesso tempo di esclusione dallo spazio pubblico. In questo senso un’opera importantissima di Gordon Matta-Clark è l’Arco di Trionfo per i Lavoratori di Sesto San Giovanni, del 1973. Si tratta di un’opera rimasta su carta ma potentissima perché Matta-Clark non cerca di estetizzare la lotta operaia ma ne prende parte in maniera proattiva, trasforma paradossalmente lo spazio pubblico in uno spazio civile. Per fare questo l’artista immagina di costruire un portale, una soglia tra visibilità e invisibilità, intervenendo nel movimento operaio con degli spunti di riflessione, delle prassi di azione per potersi emancipare dal lavoro come forma di controllo e rendersi visibili nello spazio pubblico. Matta-Clark immagina questa soglia come un momento di passaggio, una scena fissa teatrale in cui le azioni umane vengono performate nella loro forma più elementare. Questa soglia rappresenta appunto il passaggio tra spazio pubblico e spazio civile, oltrepassarla significa entrare a far parte della cosa pubblica, emanciparsi dal lavoro (aveva anticipato di molto il dibattito contemporaneo del futuro senza lavoro), dalle passioni e addirittura dall’arte, intesa come poiéō, cioè del fare creativo.
Ho messo insieme Ghirri e Gordon Matta-Clark con le mie opere perché questi due autori sono quelli che più hanno influenzato la mia prassi. Entrambi hanno operato una continua e capillare manomissione del loro quotidiano, si sono aperti completamente all’imprevedibilità della pratica e della ricerca, sono essi stessi diventati uno spazio civile. Alla base di questa manomissione del quotidiano c’è la costante messa in discussione di un punto di vista consolidato e istituzionalizzato sul reale, quindi un continuo tentativo di rivoluzione dello sguardo.
Gordon Matta-Clark, ad esempio, si opponeva a tutto quello che era progettazione. È stato il padre della Anarchitecture assieme a Trisha Brown, un movimento che si opponeva alla progettazione intesa come forma di controllo del nostro spazio intimo e della forma delle nostre relazioni. L’azione che Gordon Matta-Clark, attraverso la sua ricerca, cercava di stressare e forzare all’interno delle comunità in cui operava era la pratica della trasformazione. Era un artista che andava sotto i ponti di Brooklyn per cucinare maiali da dare agli homeless. Con Carol Goodden ha fondato Food, un ristorante dove lo stesso cucinare era pensato come una forma imprevedibile di trasformazione della materia: lui considerava i processi di trasformazione come il livello più alto in cui l’arte si può esprimere.
Gordon Matta-Clark forzava sempre l’azione del libero movimento, inteso sia a livello tangibile che intangibile. Perché il libero movimento? Perché se noi immaginiamo la città come un sistema di significati che insiste su un territorio, e la memoria come linguaggio che decodifica questi significati, allora, semplificando, potremmo dire che la memoria si esercita attraverso il movimento, per cui offrire libertà di movimento vuol dire al contempo offrire delle possibilità di esercizio della memoria, libero e imprevedibile. Il che vuol dire offrire la possibilità di conoscere la città in maniera capillare e allo stesso tempo globale. Lo stesso faceva Ghirri: l’Atlante è uno strumento per il libero movimento dal punto di vista intangibile e concettuale. Offre dei segni da utilizzare come strumenti di risignificazione del reale stesso. A questo mi sono educato, ed è quello che cerco di fare attraverso la mia pratica, sia essa curatoriale, di costruzione di spazi o di ricerca personale attraverso la fotografia.
Parlando in senso più ampio di immagine, ciò che faccio nella mia pratica è cercare di costruire degli avamposti di osservazione del reale inediti e inesplorati attraverso cui osservare quelle forze che definiscono l’immagine del contemporaneo in cui viviamo, cercando di raggiungere delle posizioni che sono anche politiche, non solo fisiche.
Non ho mai fotografato dai tetti, è successo solo una volta a Gaza, ma non è stata propriamente una scelta, è stato qualcosa a cui sono arrivato in un secondo momento perché camminando per le vie era difficile pervenire, paradossalmente, all’immagine del dramma e della distruzione che associamo ad un territorio come quello della striscia di Gaza. Gaza City è una città molto simile alle città che conosciamo del Mediterraneo, mi ricordava sia Brindisi che Bari per certi aspetti. Al livello della strada non avevi percezione della distruzione: la tecnologia in ambito militare oggi permette di essere profondamente chirurgici, nascondendo l’immagine della devastazione. Quando invece ti spostavi sui tetti vedevi tutt’altro: potevi osservare la geografia dei conflitti che riguardavano la città. Attraverso questa geografia del danno riuscivi ad interpretare l’urbanistica dell’autorità militare sul territorio. Questo è un esempio abbastanza chiaro di rivoluzione dello sguardo, che vuol dire anche abbandonare un certo tipo di racconto classico dello spazio urbano – che in italia è stato già approfondito da autori come Ghirri, Basilico o Chiaramonte – e usare invece l’architettura, il paesaggio e la città come dispositivi per avvicinarsi a questioni di natura geopolitica che riflettono la storia economica di un territorio e permettono di costruire una maggiore conoscenza identitaria (dove per identità intendo la conoscenza di quelle forze economiche e sociali che definiscono una determinata condizione sociale e il sistema di relazioni all’interno della comunità a cui si appartiene). Penso che la fotografia possa diventare uno strumento per la ricostruzione dell’identità, che è il primo passo per la ricostruzione dei luoghi e del fare comunità.
Salvatore: A me interessano particolarmente queste pratiche alternative, artistiche o meno, che servono alla sovversione (e manomissione) del quotidiano per costruire, come scrive Azzurra, nuovi futuri. Tu utilizzi lo sguardo mentre lei indaga a fondo la questione del corpo. Vorrei leggere uno dei dieci punti del manifesto presente in Costruire Futuri: “costruire futuri significa anticipare a oggi, a partire dal corpo, il cambiamento desiderato per domani. Il corpo come sito che ospita la complessità delle relazioni e allo stesso tempo il sito di convivenza delle contraddizioni umane. Iniziamo dal corpo a definire la relazione tra il nostro essere e il mondo che ci circonda, definendo la nostra identità come in continua evoluzione. Le categorie tradizionali, dal genere al sesso, devono cadere.”
Trovo il lavoro di Azzurra molto vicino al lavoro di Antonio, perché nella sua pratica, attraverso il corpo, cerca di superare le soglie che contrappongono lo spazio pubblico a quello civile. Vorrei che ci parlassi del tuo lavoro e di come questo succede.
Azzurra: Provo a fare un passo in fuori e a collocarmi in questa esperienza che viene da un percorso iniziato a Roma con gli Stalker e che ho poi portato avanti con la mia tesi di dottorato dal titolo “Abitare la soglia, spazi e pratiche per una città plurale”. Gli spazi di soglia sembrano degli spazi indecisi, ambigui, senza funzione, molto vicini al Terzo Paesaggio di Gilles Clément. Sono spazi residuali senza identità, sono luoghi che non appartengono né a me né a te, ma ci permettono di diventare, insieme, altro. In questo senso, riprendendo quello che diceva Antonio, sono i luoghi in cui le identità sono in evoluzione, diventano altro attraverso l’incontro.
Questa era la base delle tesi che ha preso in seguito varie forme, ed è un po’ quello che mi guida attraverso le mie mille identità professionali. Gli strumenti sono diversi ma il punto resta sempre lo stesso, e in questo libro provo a fare un passo avanti. Il libro è un dialogo tra me e il filosofo Leonardo Caffo, quindi tra architettura e filosofia. Si interroga su che cosa sono i futuri in filosofia, il futuro come campo aperto, come campo da costruire completamente. Il mio capitolo si chiama Città opera aperta, e prova a indagare quali sono gli spazi nella città che consentono l’apertura, l’evoluzione, la trasformazione.
Implicitamente provo a dire che la trasformazione dello spazio passa attraverso la trasformazione delle relazioni e delle identità. Non si tratta di una mera trasformazione fisica, ma di un processo che implica innanzitutto una trasformazione dello sguardo e del corpo, rispetto alle quali la trasformazione dello spazio avviene di conseguenza. Ad esempio quello che stiamo facendo qui adesso – o quello che abbiamo fatto alle Manifatture Knos a Lecce con i Coloco e Gilles Clément – è tentare di trasformare gli spazi trasformando le relazioni. È importante stare qui adesso a parlare perché rappresenta già una prima trasformazione, una condivisione in cui ciascuno di noi fa un passo verso l’altro.
Nel libro sostanzialmente proviamo a dire che ci vuole una nuova alleanza tra le arti – la filosofia, l’arte, l’architettura – attraverso tre protagonisti in dialogo tra loro: Amos Gitai, un cineasta; Adrian Paci, un artista; Stefano Boeri, un architetto. A loro modo, con linguaggi e strumenti completamente diversi, questi tre autori traducono l’idea di una società aperta e in evoluzione. Amos Gitai è un regista israeliano che è stato esiliato dal suo paese perchè non esattamente conforme a quella che doveva essere l’identità rigida e istituzionale del popolo israeliano, quella che il governo vuole che sia l’immagine che venga trasmessa. Lui, al contrario, cerca di far emergere l’umanità che sta dietro ai ruoli. In Kippur, ad esempio, ci svela l’umanità dei soldati, al di là dello schieramento per il quale lottano. In “Carpet”, film anticipato da una mostra a Palazzo Reale a Milano tre anni fa, il tappeto diventa un artefatto che è la dimostrazione tangibile della collaborazione tra i popoli. Questo oggetto è fatto dai commercianti ebraici che portano i tessuti e dalle donne musulmane che li dipingono: un unico oggetto capace di condensare un sistema di collaborazioni che va al di là delle differenze. Anche Adrian Paci è autore di molte opere per noi significative. La più struggente è quella in cui lui raffigura sé stesso – sia in performance che in forma di scultura – con un tetto sulle spalle nell’atto di rappresentare la condizione del migrante che ogni volta è pronto a ricostruire la sua casa ovunque. O, anche, la sua immagine più sintetica e potente, il “Centro di Permanenza Temporanea” che coglie, in una sintesi estrema, la condizione di sospensione di chi sa quello che lascia e non sa quello che troverà (se mai lo troverà). È l’immagine di un gruppo di persone su una scala da imbarco in attesa di un aereo che non c’è. Per ultimo, raccontiamo il lavoro di Stefano Boeri, che porta avanti una ricerca sui temi della forestazione urbana e del dialogo tra città e natura, con la biodiversità intesa come il tentativo pratico di realizzazione di spazi pensati e costruiti non soltanto per la specie umana ma anche per piante e animali.
Potremmo dire che il tratto comune a queste pratiche è l’interrogarsi su come costruire una società aperta. Questo deve passare necessariamente attraverso una trasformazione dello sguardo, delle relazioni e degli spazi.
Salvatore: Infatti io ho studiato architettura ma, pur non praticando, mi reputo comunque un progettista, nel senso che utilizzo la scrittura come mezzo di riflessione. Un progettista per modificare un certo contesto, sviluppa un linguaggio che può essere la fotografia come la scrittura. Certamente uno degli strumenti più immediatamente riconducibili alle pratiche spaziali è l’architettura. Orizzontale, ad esempio, è un giovane studio che, ormai da anni, lavora sullo spazio pubblico cercando di distorcere quella che è la classica figura dell’architetto. Mi interessa molto il loro lavoro per l’evoluzione coerente della loro pratica, a partire dai primi interventi di hackeraggio urbano fino ad Aprilia, dove stanno realizzando un progetto complesso per conto del Mibact.
Mi interessa discutere con loro non solo della loro pratica, ma delle criticità che hanno vissuto fino ad adesso, lavorando in un dominio pubblico in cui ci sono tantissimi attori, interessi e contraddizioni. Questo argomento è importante per poter comprendere in tutta la sua complessità il lavoro nello spazio pubblico.
Nasrin (Orizzontale): I pensieri di Azzurra e Antonio mi hanno fornito molti sputi di riflessione. Io faccio parte di un collettivo ampio ed eterogeneo che attualmente vive un grande dibattito interno sulle direzioni da seguire, per cui trovo ironico che veniamo descritti come una pratica così chiara e lineare. Noi abbiamo iniziato la nostra esperienza cercando di cambiare punto di vista già all’interno dell’ambiente universitario, attraverso una combinazione di riferimenti locali – come gli Stalker – e movimenti internazionali come Raumlabor Berlin e Exyzt. Le prime criticità incontrate sono state un motore per il nostro lavoro. Inizialmente avevamo necessità di andare a fare pratica diretta nello spazio urbano per sperimentare e stressarlo, dando una lettura dei significati che potessero essere interpretati dalla comunità in maniera differente.
Questa pratica, che è partita da interventi hacker e illegali, ci ha portato ad affrontare moltissimi fallimenti lungo il nostro percorso, spesso legati alla natura temporanea dei lavori.
Il nostro linguaggio è in continua evoluzione, e anche il nostro modo di vedere la città si sta trasformando. Il temporaneo è stato – ed è ancora – uno strumento molto utile perché, nonostante non lasci un’architettura tangibile all’interno dei territori, lascia tracce e memorie, però abbiamo riscontrato in alcuni casi (soprattutto nei territori più fragili) dei limiti di questa pratica, dal momento che gli abitanti si aspettavano una presa di responsabilità maggiore del luogo da parte nostra in quanto architetti.
Un esempio che consideriamo un fallimento carico di potenziale è il lavoro fatto, a più riprese, a largo Bartolomeo Perestrello, uno spazio a cui teniamo molto e in cui abbiamo iniziato a lavorare dal 2010. Era uno spazio completamente negato alla cittadinanza: la copertura di un parcheggio rimasta vuota e recintata nel quartiere della Marranella.
Per prima cosa abbiamo deciso di aprire i cancelli e restituire alla comunità uno spazio abbandonato e chiuso da 10 anni. Il nostro intervento ha attirato attenzioni sull’area che hanno avuto, come conseguenza, l’inizio dei lavori pubblici nella piazza. In quell’occasione abbiamo ideato “work-watching”, un avamposto di osservazione a simboleggiare che i cittadini avevano il diritto di essere controllori della trasformazione di uno spazio che gli apparteneva. I lavori si sono conclusi nel 2012 con una grande festa di quartiere ma, di fatto, il risultato è stato una grande spianata pavimentata con pochissimi arredi urbani. Questo fa riflettere su quanta poca importanza venga data alla trasformazione degli spazi collettivi. Già nei laboratori di progettazione dell’università, ad esempio, il tema urbano era sempre lasciato a margine o affrontato attraverso uno sguardo satellitare, tracciando linee e assi viari o analizzando la demografia, ma senza andare a vedere quali fossero le reali necessità dei territori.
Le nostre esigenze di sopravvivenza (anche questa è una criticità notevole!) ci hanno tenuto lontano da quello spazio per un po’ di tempo. Siamo tornati a lavorarci nel 2017 in occasione del festival di architettura New Generations, proponendo Largo Perestrello come luogo di avvio del festival. In quell’occasione abbiamo avviato il cantiere di “Iceberg”, un’infrastruttura relazionale che metaforicamente rappresenta il territorio e tutte quelle risorse invisibili emerse dalla prima esplorazione. Parlando con le associazioni locali veniva fuori una percezione di distacco e sfiducia. Quando chiedevano come veniva vissuto questo spazio, la risposta generale era che non era vissuto affatto. Allo stesso tempo, avendolo frequentato per diversi mesi ci rendevamo conto che si trattava di uno spazio fortemente abitato: dal badmington dei bengalesi al volleyball dei sudamericani fino alle cene del Ramadan. La cosa che effettivamente mancava era un punto di aggregazione. Avendo già riscontrato il limite della frammentarietà e monodisciplinarietà delle nostre azioni, abbiamo scelto di appoggiarci agli psicologi sociali per fare indagini sulla cultura locale e soprattutto per mettere in sinergia le diverse risorse attive sul territorio: associazioni e gruppi che non dialogavano tra loro. L’iceberg era un modo per riuscire a costruire un’organizzazione collettiva e allo stesso tempo garantire lo svolgimento libero della vita nella piazza. Lo spazio si prestava allo sport, ma non permetteva aree di incontro e scambio, né si poteva ad esempio consumare un pasto di gruppo. L’intervento ha modificato la percezione e l’uso di quella piazza.
Questo percorso è partito da azioni illegali e nel tempo ha fatto emergere la criticità della mancanza di dialogo tra istituzioni e comunità residenti. Abbiamo cercato di rendere possibili azioni come la costruzione di arredi diversi da quelli consentiti per legge. Gli spazi pubblici sono estremamente normati e codificati, c’è una grande ansia di tutto quello che può comportare una trasformazione che non segue determinate norme e certificazioni. Il cortocircuito, infatti, è avvenuto quando l’amministrazione locale si è rifiutata di prendere in carico l’installazione a livello temporaneo (nei successivi due anni). Alla fine abbiamo dovuto smontare il nostro lavoro, è stata una scelta difficile perché si erano create delle aspettative. È stato un gesto forte ma compreso anche grazie al cantiere collettivo e al lavoro degli psicologi sociali. Stiamo dialogando con l’amministrazione pubblica per riuscire a continuare a lavorare su quel luogo, perché è un’area in cui si sente il bisogno di avere uno spazio di sfogo e incontro.
Salvatore: quello che mi ha interessato del processo di largo Perestrello è come anche un’installazione temporanea sia riuscita ad evidenziare il sistema di relazioni, segni e intenzioni che sono nascoste nelle nostre città e nei contesti più vari. Questa è una cosa che ho trovato molto simile in un progetto che ha sviluppato Saverio Massaro con deltastudio, una proposta per un masterplan per la città vecchia di Taranto. Deltastudio ha lavorato in maniera diversa, non con azioni dirette ma sviluppando strategie. Una cosa che mi ha colpito è l’assunto di partenza: una mappatura degli avamposti che lavorano sul territorio, intesi come agenzie territoriali con cui avviare un dialogo di co-progettazione. Ci sono moltissime intenzioni e azioni all’interno del territorio urbano di Taranto, e il loro progetto ragiona sulla possibilità di renderle qualcosa di più duraturo e permanente, e quindi strutturale.
Saverio (deltastudio): Provo a raccogliere qualche spunto emerso, cercando di coniugarlo con il racconto del progetto. Il discorso di Nasrin si può estendere a un’intera generazione di progettisti di cui noi sentiamo di fare parte e con cui condividiamo esperienze umane. È come se questa generazione si costruisca il futuro aprendo delle piccole parentesi di presente e di speranza. Probabilmente lavoriamo anche con un fiato più corto rispetto alle generazioni precedenti.
Quando c’è stato chiesto di lavorare sul futuro di questa particolarissima città, l’abbiamo fatto provando a demolire il concetto di masterplan che tanti danni ha prodotto nelle città che abbiamo vissuto. Abbiamo provato a capire le trasformazioni che viviamo oggi, in primis la trasformazione del digitale che investe tanto la Pubblica Amministrazione quanto la singola persona e le singole azioni.
Le città non le trasformano solo gli architetti: fare un orto urbano o abitare un tetto per una serata con un progetto di curatela trasforma una comunità in progettisti, non serve la laurea in architettura per fare città. Ci siamo chiesti come tutti questi elementi potessero diventare sistematici, aumentando il valore delle trasformazioni. Una delle cose che emerge da questi racconti è la parola “gioco”, abbiamo usato l’espressione “playTaranto” per indicare questo progetto e per dare una visione coerente ad una serie di ragionamenti, cercando di non pre-determinare troppo ma creando delle condizioni – attraverso strumenti digitali come una un’app dedicata – per innescare una dinamica ludica che tenga traccia di azioni virtuose per promuovere idee e metterle al vaglio di una comunità.
Il progetto della piattaforma verte intorno a una scheda che permette a singoli e a gruppi di entrare in questo meccanismo. Questo potrebbe apparire controverso, in quanto meccanismo replicabile in maniera neutra in altre città, ma in realtà noi ci appoggiavamo ad una mappatura che partiva dalla ricognizione e inclusione di realtà locali già attive come co-working, associazioni e spazi culturali: Taranto prima del 2016 era già un cantiere effervescente. Per noi i soggetti individuati erano i primi presso cui poter presentare questo processo, attivando dei seminari e dei laboratori con cui avvicinare le persone all’uso dell’app. L’altra criticità con cui ci siamo scontrati, ma che era anche molto ben vista dagli esperti con cui collaboravamo, era il livello di istituzionalizzazione di questi processi: quanto lontano puoi andare con l’orto urbano, la piazza temporanea, i graffiti? Prima o poi ti scontrerai con le norme e la pubblica amministrazione, per cui la governance di questa piattaforma prevedeva un soggetto terzo, una fondazione, che avrebbe dovuto gestire l’infrastruttura, dialogando con l’amministrazione. L’ultimo stadio, che noi abbiamo definito “Co-Taranto”, era l’applicazione del protocollo che Christian Iaione, uno dei consulenti del gruppo assieme a Labsus e Labgov, sviluppa su scala nazionale, cioè l’idea di sviluppare infrastrutture, sistemi e protocolli che aiutino realmente le pubbliche amministrazioni a sbloccare le potenzialità dei beni comuni e del patrimonio abbandonato. Quello che Christian approvava di questa logica ludica – che è molto usata nelle tecniche di marketing – è la capacità di tirare in ballo quello che viene definito il “quinto attore”, cioè la società civile che in questo sistema diventa un protagonista attivo e non era visto, come spesso accade, come un utente finale. Questa proposta ha dato inizio ad una serie di riflessioni che proseguiamo tutt’oggi. Stiamo sviluppando un progetto con l’Istituto del Lessico del CNR a Roma per definire gli spazi civici. Questo si collega anche all’esperienza di CivicWise: preferiamo la parola “civico” piuttosto che “civile”, le parole ci sembrano una discriminante che rende un po’ più chiari alcuni scenari. Le parole sono come delle cose, come degli artefatti che tu realizzi per raccontare progetti dalla forte valenza strategica. Recentemente ad Altamura (BA), la città da cui provengo, mi è capitato di essere di supporto alla Pubblica Amministrazione assieme ad altre associazioni, ed è quanto di più necessario oggi. Gli architetti possono essere progettisti molto utili se mettono a disposizione queste competenze.
Salvatore: Ti interrompo per ridarti subito la parola e per aprire al dibattito in generale. Quello che mi interessa è cercare di trovare dei modi di aggregazione o di strutturazione delle tante voci che ci sono nella città. A me piace tantissimo la metafora del sistema cellula – organo – apparato – corpo, per intendere un corpo che non è più singolo ma diventa corpo collettivo. Con Nasrin ieri parlavamo, citando la zanzara di Guzzanti dell’insieme delle voci che non devono fare per forza un coro ma cercare di strutturare un discorso complesso e plurale, e perché no, contraddittorio. Quindi Saverio potrebbe partire dall’esperienza di CivicWise raccontando quali sono, secondo loro, i temi da affrontare per cercare di costruire, quelle che io chiamo “nuove istituzioni”.
Saverio: CivicWise è una rete nata nel 2014 da un’intuizione di Domenico Di Siena, un architetto e urbanista italiano che ha lavorato molto all’estero e che, nel suo girovagare, ha aggregato una comunità composta prevalentemente da architetti, designer e urbanisti. Persone che che simultaneamente agiscono su diverse città e contesti con forme di urbanistica collaborativa e si interrogano sulle forme di innovazione civica. Questa rete si è via via unita nel tempo attraverso incontri, spesso di natura digitale. Una delle cose che distingue CW è la fluidità di interazione tra i membri. Si tratta di una rete completamente informale, ti agganci e ti sganci come, appunto, una cellula nel corso del tempo. C’è gente che ha dato un grosso impulso propositivo all’inizio e poi si è sganciata, perché cambiano le esigenze e le necessità personali nel tempo.
Salvatore: Una cosa importante che diceva Domenico, con cui ho parlato un paio di anni fa, è la capacità di CW di sviluppare un sistema che diventasse come un brand che riesce ad attrarre fondi pubblici e privati, ad esempio a Valencia ha preso in gestione uno spazio nel porto per creare un hub culturale abbastanza importante. Quello che fa lui, a seconda delle responsabilità che le persone all’interno della rete si assumono, è di dare un sistema di contribuzione anche economica, quindi se uno vuole partecipare spontaneamente e in maniera non troppo profonda può farlo in maniera gratuita. Man mano che la complessità dell’azione aumenta è prevista la possibilità di retribuzioni, ed è questo che è importante in quello che chiamo nuova istituzione.
Saverio: I livelli di engagement principali hanno regole molto chiare. Inoltre tutte le riunioni sono registrate e disponibili su Youtube. Il valore di questa rete non è solo decentralizzazione e capillarità, ma soprattutto è lo scambio di informazioni che genera una logica relazionale e mutualistica. L’ingresso avviene tramite un corso online, per cui molti fanno gruppo e si iscrivono a questo corso, che non è formalizzato però permette di entrare in contatto con persone a te simili, e generare livelli di collaborazione sempre nuovi.
Gabriele: Questa cosa è abbastanza rilevante. Qualche giorno fa parlavamo con Angelo Cannata di come si stia percependo a Taranto – in particolare città vecchia dove si concentrano i progetti sociali indipendenti – una situazione di sfilacciamento e disillusione. Angelo ci ha fatto notare come l’esperienza del concorso di idee internazionale OpenTaranto abbia generato una frammentazione generale. Questa astronave calata dall’alto paradossalmente ha fatto il contrario di quello per cui serviva. Gli attori locali non hanno saputo fare massa critica e si sono dispersi nei diversi gruppi di progetto, mettendosi di fatto in competizione. L’idea di fondo di quel progetto, tra l’altro, è anacronistica e reazionaria perché cerca di pianificare a lungo termine le trasformazioni di un’area urbana circoscritta come se fosse scollegata da dinamiche politiche economiche e sociali in continua evoluzione.
Saverio: Soprattutto senza una consapevolezza di come si guida un processo così complesso.
Gabriele: Questo ci fa riflettere sul fatto che dobbiamo mettere in discussione il ruolo del progettista che può, con una regia dall’alto, agire sul territorio canalizzando dei flussi e dei comportamenti umani. Con questo faccio una critica sia al progetto di Saverio che alla pratica di Orizzontale: non dobbiamo fare l’errore di pensare che l’architetto, o più genericamente l’abitante progettista, possa determinare da sé un cambiamento. Piuttosto dovrebbe puntare a innescare un cambio di paradigma collettivo e più eterogeneo possibile. Ci sono state, negli ultimi anni, delle azioni esemplari in questo senso. Mi viene in mente il gesto di Blu, lo street artist che, decidendo di ricoprire interamente di grigio alcune sue opere in spazi pubblici europei, ha dato vita a un dibattito acceso e globale su cosa era diventata la street art: da pratica di disobbedienza civile a strumento iper-formalizzato e normalizzato dai sistemi economici (il mercato dell’arte) e politici (la rigenerazione urbana).
Quello che ha fatto Blu è un’azione importante, quasi viscerale, che mette le persone, anche per via del suo peso mediatico, nella condizione di un cambio di paradigma. Lui non ha indicato il modo in cui utilizzare i muri, o l’aspetto che dovrebbe avere uno spazio pubblico, ma ha compiuto un gesto che ha molti più layer di gran parte dei progetti architettonici. Con questo esempio cerco di allacciarmi a una serie di incontri organizzati da Antonio a Bari sul valore dell’arte pubblica. Perché è importante l’arte rispetto al progetto? Perché l’arte esce fuori da qualsiasi tipo di normatività e non crea nessun indirizzo, se non la possibilità di una crisi importante e necessaria.
Saverio: Qual dovrebbe essere quindi l’impronta dell’azione artistica sulla questione progettuale, considerando che le metti a confronto? Cosa dovrebbe imparare la pratica progettuale da quello che stai descrivendo?
Gabriele: Dovrebbe imparare a lasciare più spazio di marginalità all’azione e alle conseguenze dell’azione. Come provocazione, proporrei di cominciare ad abbandonare l’idea stessa di progetto dello spazio. Da un punto di vista ideologico potremmo sostenere che se lo spazio pubblico ideale contiene più diversità sociale possibile, difficilmente un progetto o un manufatto potranno accontentare le esigenze di tale varietà. Un’altro esempio per me importante, perchè frutto di un’azione collettiva, è l’esperienza di Macao con la Torre Galfa: hanno organizzato una grande chiamata alle armi per occupare un edificio nel centro di Milano (dal grande valore politico ed economico) cercando di garantire un’organizzazione aperta e permeabile. Secondo me questo è uno dei progetti architettonici di spazio pubblico più importanti della storia contemporanea in Italia..
Saverio: In virtù dell’occupazione?
Gabriele: Sì, il gesto dell’occupazione in sè, non quello che si è fatto dopo, che era conseguenza di un programma fallito dopo poco dall’attuazione.
Salvatore: Paradossalmente a me interessa quello che è accaduto subito dopo lo sgombero, quando si è rimasti nella piazza…
Antonio: Credo che Gabriele stia parlando di una dimensione completamente diversa: vuole intendere che senza il momento apicale dell’azione artistica – la camminata, la marcia e l’occupazione, quindi l’atto nello smemoramento del sé – non ci potrebbe essere una nuova istituzione quale è Macao adesso. La trasformazione in istituzione ha portato con sé cose positive e negative – sicuramente Azzurra il tema lo conosce meglio di me. Io mi sono fermato all’occupazione della Torre Galfa, ci ho vissuto dentro e ti assicuro che quella comunità non esiste più perché è stata delusa e usata da un movimento che, pur proponendosi come il movimento dei lavoratori dell’arte, non ha mai avuto una gestione economica chiara.
L’arte è quel dispositivo che ti permette di essere visibile nello spazio pubblico. In quanto sublimazione dal lavoro, l’arte è uno strumento che l’artista mette in campo e che serve, a chi non ha possibilità di partecipare allo spazio pubblico, per essere visibile. È un processo di educazione ed emancipazione, di rivoluzione dello sguardo. L’arte si oppone a qualsiasi tipo di progettazione. L’arte è spazio pubblico nel momento in cui accetta l’imprevedibilità come carattere dominante e costitutivo dello spazio pubblico in sé. Come possiamo pensare di progettarlo se la sua caratteristica è appunto l’imprevedibilità? Parlo anche di spazio pubblico immateriale, inteso come un sistema di relazioni. Lo spazio pubblico si fonda sul conflitto: laddove noi cerchiamo di decorare le città nel tentativo di eliminare il conflitto o spostandone i margini, stiamo spostando i margini dello spazio pubblico. Questo è quello che è successo a Bari – una città dove non c’è più spazio pubblico: è stato deportato perché non riusciamo ad accettare il conflitto come immagine, lo esiliamo da noi. La cosa interessante dei progetti che abbiamo raccontato è la capacità di essere strumenti di avvicinamento ad alcune emergenze e ad alcuni spazi pubblici. Questa è la cosa principale, avvicinare, quindi conoscere, alcune cose che avevamo cancellato dal nostro universo di conoscenze, da quello che sentiamo nostro. Il nostro progetto di ricerca The Third Island era questo: affermare che la calabria esiste e che possiamo ricostruirne una iconografia territoriale, avvicinandoci a quel territorio e alla storia che lo ha definito, dalla ricostruzione del Secondo Dopoguerra fino agli anni ‘90. Si tratta di una storia continentale che ci appartiene. L’immagine di quel trauma è diventato parte congenita in un ognuno di noi, dobbiamo tornare a costruire degli avamposti di conoscenza.
È vero che tutto è architettura, anche Basilico diceva che chiunque interviene, attraverso la sua attività, nei processi di trasformazione del territorio, lo fa mosso da una pulsione di ricostruzione: lo fanno l’architetto, lo spazzino e il fotografo, nel momento in cui ricostruiscono un sistema di significati che compongono i luoghi che viviamo. Siamo tutti architetti, ma non solo oggi, è sempre stato così. La città è fatta in gran parte da luoghi interstiziali, quei luoghi dove ti fermi ad allacciarti le scarpe e che, come diceva Sartre, sono costruiti in maniera imprevedibile, al punto che tutti noi che li abitiamo siamo progettisti. Quello che mi spaventa è l’estrema egoità, inevitabile, dei progettisti, quella smisurata considerazione del sé, dei proprio interessi, delle proprie capacità e della propria visione dei mondi possibili. Questa cosa la ritrovo in ogni progetto, sia esso temporaneo o di relazioni, sia esso materiale o immateriale, quindi digitale. Tu chiedi quali sono le nuove istituzioni: forse devono rimanere invisibili, abbiamo una necessità di invisibilità perché essere invisibili è fondamentale per poter essere disobbedienti. Ritorno a Gordon Matta-Clark: se volessimo ri-contestualizzarne il suo lavoro oggi, ci parlerebbe di temi che noi abbiamo affrontato e che la politica non affronta, come accelerazionismo, futuro senza lavoro… continuamente educandoci ad essere fuori legge, ex-lege. Penso che lo spazio pubblico debba essere qualcosa di scomodo e violento, una violenza che poi si sublima in arte, un po’ come la differenza tra prendersi a botte e le arti marziali, una capacità di confronto anche violento con l’altro che però è sempre uno spazio di conoscenza e interpretazione, un linguaggio.
Leonardo: A proposito di istituzioni, Alessandro Coppola nel primo incontro ha posto una domanda che mi ha colpito: come attivisti, qual è il nostro mandato e qual è il mandante? Non è necessario che sia istituzionale. Perché dovremmo avere delle nuove istituzioni? Ad esempio prima Gabriele parlava di Blu che ha cancellato alcune opere a Bologna e a Berlino: a Bologna le ha cancellate perché c’era stata un’operazione di musealizzazione della street art da parte delle istituzioni. A Berlino ha eliminato due opere a Kreuzberg, diventate simbolo di quel quartiere, perché lì avrebbero costruito un albergo. Lui ha voluto sottolineare che il suo mandato come artista veniva dalla comunità e non dalla neo-arrivata società di real estate. In qualche maniera c’è anche una progettualità dietro questa azione: lui ha progettato il fatto di avere un mandante e un mandato, e quando questo è cambiato – perché la città cambia – ha ribaltato la sua azione. Anche Taranto sta cambiando, iniziano ad esserci interessi immobiliari, e tra dieci anni una buona parte della città sarà diversa. In questa situazione il nostro mandato c’è, sono d’accordo sulla necessità di essere invisibili, però le azioni devono vedersi in qualche maniera, ed è molto complicato.
Azzurra: Io ho una domanda veramente genuina da almeno 10 anni e vi chiederei aiuto nel trovare una risposta. Tutti noi attraversiamo pratiche marginali in cui agiamo nei frammenti con un logica dal basso che si fa interprete di una pluralità, cercando di creare dei dispositivi che facciano dialogare, anche in una dimensione conflittuale, delle istanze diverse. Mi chiedo quali sono i limiti: è possibile che queste pratiche diventino qualcosa di incisivo, che facciano parte del modo in cui si costruisce la città? C’è comunque una soglia che è quella del potere e dell’istituzione contro cui si vanno tutte a infrangere. Molto spesso queste pratiche collassano sull’aspetto della sostenibilità economica: sono utopie che devono essere organizzate. Una possibile soluzione che mi viene in mente è l’esperienza di Bollenti Spiriti, che ha cercato di intercettare tutti i micro movimenti e di organizzarli in un network.
Un altro livello di riflessione è la rivoluzione dell’immaginario, la costruzione della narrazione di questi eventi: il passaggio per cui le cose che brulicano dal basso diventano incisive è un salto di scala che non si riesce mai a superare. Mi domando questa cosa: questo limite è strutturale nelle pratiche dal basso oppure c’è un modo in cui, con linguaggi e strumenti diversi, possiamo provare a superarlo?
Una cosa che è esemplare sono le ultime due biennali di architettura. Quella di Rem Koolhaas, un lucidissimo visionario del ‘900 che però continua a perpetrare un sistema egoico e non ecologico, era cristallina e con un messaggio diretto e potentissimo. Al contrario, la biennale successiva curata da Alejandro Aravena intercettava un’eterogeneità di micro progetti sparsi nel mondo, con il limite dell’assenza di una visione d’insieme. Se da un lato mi sentivo vicina alle esperienze da lui raccolte, dall’altro percepivo una grande frammentarietà. Il mio sogno è quello di provare a sovrapporre questi due approcci in modo che le realtà che provano a costruire ed attivare reti dal basso riescano, attraverso una combinazione di politiche e narrazioni forti, ad essere convincente ma anche strutturale, dando alla marginalità una posizione centrale. Come si fa a fare questo passaggio?
Nasrin: Azzurra ha centrato un tema su cui ci interroghiamo da tempo anche noi. In questi giorni cominciamo un progetto che affronta un cambio di scala rispetto alla nostra pratica: ad Aprilia faremo un intervento nello spazio pubblico che sarà più strutturale delle nostre azioni temporanee passate, e che prevede un dialogo diretto con l’istituzione. Su quello spazio faremo delle scelte progettuali e fisiche, cercando di lasciare spazio all’imprevedibilità e alla possibilità che le persone riescano ad esercitare la propria libertà espressiva e creativa. Abbiamo cominciato a lavorare con pratiche bottom-up per cercare di evitare una progettazione troppo deterministica. Una parte del budget sarà dedicata all’analisi psicosociale, cosa che è stata difficile da inserire in un contratto di gare d’appalto. Nel fare questo, le nostre esperienze precedenti (e più informali), tornano utili per trovare un connubio tra il programma e l’assenza di programma.
Salvatore: Io credo che il mio mandato come progettista sia quello di cercare di potenziare le volontà di azione che già ci sono. Io ho dato il mio contributo da studente, adesso non sento più la pulsione di agire in prima persona ma mi interessa più cercare di costruire, a partire da vari attori (e indipendentemente che sia un processo dall’alto o dal basso) un sistema più complesso. Questa potrebbe essere definita come pratica curatoriale, anche se alla parola curatoriale, che rimanda a concetti di “messa in ordine” e di selezione, preferisco le parole conflitto e cortocircuito. In questi processi uno dei miei modelli di ispirazione è Alessando Mendini, che definirei progettista più che designer perché ha lavorato con le riviste di architettura e di design producendo oggetti e sperimentando varie pratiche. Lui si definisce un pasticcione. A me piace fare pasticci, fare confusione, che poi è l’opposto di quello che fanno i curatori, che invece ordinano e creano una narrazione univoca. Il mandante non so chi possa essere onestamente. È un tema a cui tengo molto e a cui non ci sono soluzioni.
Chiara: Vorrei aggiungere una variabile, per non rimanere impigliati nella impasse delle questioni che avete sollevato. Arjun Appadurai, un antropologo che amo molto, recentemente ha scritto di un concetto che lui definisce “la capacità di aspirare”. Sostiene che che questo fattore è drammaticamente collegato alla classe di appartenenza: le persone più emarginate tendono a ridurre l’orizzonte di aspirazione, per cui bisogna lavorare per provare ad aprirlo. Vi propongo un salto di scala rispetto a quello che diceva Azzurra: anche laddove noi vediamo un progetto fallito o una struttura smantellata, ci sono degli effetti che permangono su chi quella piazza la abita e la attraversa tutti i giorni. Forse questi progetti/interventi hanno fatto breccia su quel fronte di aspirazione e lo hanno allargato. Ultimamente faccio laboratori di partecipazione nelle scuole elementari, sono laboratori che non hanno nessun effetto concreto al momento in cui avvengono, però la rivoluzione sta in quello che accade dopo: quei bambini ti vengono a dire: “non avevo mai pensato che potevo ridisegnare lo spazio in cui vivo”. E questa cosa è preziosa, è un passaggio di scala più intimo che incide nelle singole storie di vita. Forse dovremmo tenerne conto prima di deprimerci troppo.
Saverio: Vorrei fare l’esempio di una nuova istituzione che secondo me si muove in questo senso: la Scuola di Architettura per Bambini di Favara. Quei bambini saranno cittadini diversi da come siamo stati noi fino ad oggi, lì avviene un salto. Per me quel tipo di istituzioni può fare la differenza, e incidere più a fondo delle istituzioni classiche.
Salvatore: Questo scambio mi fa venire in mente uno scrittore, di cui non ricordo il nome, che finisce il suo racconto con i puntini di sospensione. Prende pezzi di vita e li stralcia dall’inizio alla fine senza avere un finale compiuto…
Antonio: Secondo me il finale lo ha dato lei.
Chiara: Non so se voglio prendermi questa responsabilità!
Antonio: Nel senso che hai bilanciato un dibattito a cui mancavano delle complementarietà. Sembrava che qui fossimo tutti, da un certo punto di vista, contro gli architetti o contro qualsiasi forma di progettazione. È giusto che esista chi fa le piazze perché si continueranno a fare, però dall’altra parte c’è un lavoro più minuto e capillare che si rivolge ad alcune coscienze periferiche.
Azzurra: Il mandato alla fine, di ognuno di noi, dovrebbe essere la creazione di una società aperta. Ma è un mandato che non viene assegnato, devi dartelo da solo.